ALBERI E FORESTE AL BIVIO: BIOMASSE PER POCHI O BENEFICI PER TUTTI ?
CONVEGNO NAZIONALE-
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Gli interventi necessari per impedire agli orsi e agli altri animali di attraversare autostrada A25 nel tratto Pescina – Cocullo
L’Aquila, 16 aprile 2021 – Da una missiva inviata dal Parco Nazionale dell’Abruzzo, Lazio e Molise al Ministero della Transizione Ecologica si apprende che pochi giorni fa l’orsa Amarena e i suoi quattro cuccioli hanno più volte attraversato l’autostrada A25 nei pressi della galleria di Cocullo e che il tratto in questione è stato anche in passato attraversato dallo stesso animale. La notizia in sé non è eccezionale, visto che episodi di presenza di animali selvatici sulle corsie della medesima autostrada si verificano periodicamente. Si tratta in ogni caso di un tratto critico per l’attraversamento in zona di ungulati e lupi. Sempre dalla stessa missiva si apprende che la società che gestisce l’autostrada A25 ha già da parecchi anni predisposto un progetto per la riduzione del pericolo di attraversamento di animali selvatici di grossa taglia, che interessa l’intero tracciato autostradale e che il PNALM ha predisposto una scheda di massima per realizzare una sopraelevazione della recinzione ai bordi delle dell’autostrada, attualmente alta 1,20 m, per un importo di oltre 170.000 euro, da realizzare nei tratti più critici, chiedendo al Ministero della Transizione Ecologica di finanziare l’intervento.
Il GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane chiede che sia la società concessionaria dell’autostrada che si fregia della qualifica “Autostrada dei Parchi”, a effettuare, doverosamente, la messa in sicurezza dell’infrastruttura, senza far pesare sulle casse dello Stato una spesa di competenza di chi ha in gestione questa infrastruttura e senza perdere ulteriore tempo rispetto a un provvedimento che andava attuato da anni per la sicurezza delle persone e per la tutela della fauna pregiata. Chiediamo altresì che, nei punti critici presenti lungo il percorso, ove lo spostamento degli animali è impedito dall’arteria viaria, vengano realizzati passaggi “verdi” artificiali (sovrappassi o sottopassi) utilizzando piante appetite dagli animali selvatici, perché gli orsi a gli altri animali selvatici possano attraversare in sicurezza l’autostrada, come avviene su moltissime autostrade in tutto il mondo, per mitigare le conseguenze della frammentazione del territorio.
Il mancato intervento di messa in sicurezza a oggi dell’autostrada da parte della società concessionaria, non trova giustificazioni, se non in un possibile contenzioso con il ministero delle infrastrutture, per il pagamento delle spese dei lavori, che questa ritiene debbano essere a carico dello Stato, in particolare del canone annuale di concessione, per il fatto che questi non rientrino fra i lavori di manutenzione ordinaria di propria competenza.
In ogni caso, la Società Strada dei Parchi ha la concessione in esclusiva dell’autostrada A24/A25 e la responsabilità di assicurare il transito in sicurezza del traffico automobilistico nel tratto di competenza. Non è ammissibile che la stessa società abbia chiamato il tratto in concessione “Strada dei Parchi”, perché attraversa un territorio di elevato valore naturalistico, dove si riscontra una fra le più alte concentrazioni di aree protette in Italia, senza tenere in conto che il fenomeno dell’attraversamento del tracciato autostradale da parte di animali selvatici, anche di grossa taglia, in alcune zone, sarebbe stato frequente e non episodico. Neppure è accettabile che il concessionario ritenga di poter assicurare la pubblica incolumità lungo il tracciato stradale in parola, con una rete di soli 1,2 metri. Non a caso gli episodi di incidenti causati lungo l’autostrada negli anni dagli animali selvatici sono stati molteplici, con la morte di diversi animali, compreso orsi e lupi, oltre a cervi, caprioli e cinghiali, ed è solo un caso se finora non ci sono state vittime umane.
Chiediamo quindi alla società strada dei parchi di provvedere con la massima urgenza a realizzare l’intervento di messa in sicurezza dell’intero tratto autostradale in concessione dall’attraversamento degli animali selvatici, a partire, prioritariamente, dal tratto Pescina-Cocullo, e la riterremo responsabile morale e materiale dei danni ad animali e persone che si dovessero verificare fino a quando l’intervento non sarà realizzato. Chiediamo al Ministero delle Infrastrutture e a quello della Transizione Ecologica, soprattutto alla Regione Abruzzo, di intervenire con la sollecitudine del caso e per garantire la pubblica incolumità, obbligando la Società Strada dei Parchi a realizzare l’intervento e a vigilare sulla migliore realizzazione dell’opera, per porre rimedio a questa grave inadempienza nei confronti degli utenti che ogni giorno utilizzano l’autostrada.
A nostro avviso la società concessionaria dovrebbe realizzare direttamente e a proprie spese l’intervento e se dovesse ritenere che il costo, in tutto o in parte, dovesse ricadere su altri, potrà sempre provvedere in seguito a rivalersi nelle sedi opportune.
Per quanto riguarda la proposta del Parco nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise, la realizzazione di una recinzione per impedire il passaggio di un orso e di altri animali di grossa taglia, attraverso un sopralzo di 1 metro e un paragatti sulla recinzione esistente di 1,2 metri, ci appare non idonea.
Da oltre due anni il PNALM partecipa al progetto europeo Life Safe Crossing, che mette in campo azioni per ridurre l’impatto delle infrastrutture viarie su alcune specie prioritarie in quattro paesi europei, fra i quali in particolare prevenire la mortalità sulle strade, in particolare dell’orso in Abruzzo. Al progetto partecipa la più importante società autostradale della Grecia, che secondo quanto riportato nel sito del progetto, ha “coordinato vari programmi riguardanti il monitoraggio delle popolazioni di grandi mammiferi lungo il tratto autostradale, nonché l’impatto di questa infrastruttura sulle differenti specie” e che sicuramente avrebbe potuto dare in questi frangenti un utile supporto tecnico e professionale.
Possibile che in tutto questo tempo non siano state previste iniziative ufficiali per sollecitare la società “Strada dei Parchi” a realizzare gli interventi di messa in sicurezza e promuovere una proposta progettuale di qualità?
La dichiarazione su Facebook del Ministro Patuanelli mette in allarme chi vuole tutelare il patrimonio forestale italiano
Roma, 16 aprile 2021 – Il ministro Patuanelli annuncia l’aumento del prelievo di legname dalle foreste italiane: in un post su Facebook del ministro si legge che l’Italia deve “incrementare i prelievi” dalle foreste, allo scopo di ridurre le importazioni di legname dall’estero e “migliorare la gestione dei boschi”.
Il GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane, associazione scientifica che si occupa della tutela del patrimonio forestale italiano, esprime fortissima preoccupazione per queste parole che rappresentano un altro attacco alle foreste del nostro paese, già ora sovra sfruttate e con una provvigione (biomassa legnosa per ettaro) inferiore agli altri paesi europei.
Perché l’Italia importa legname?
Il nostro paese importa sia prodotti per la combustione (legna e pellet) sia legname pregiato da opera. Per il legno da combustione, le importazioni sono dovute anche alle centrali a biomasse forestali, che con la loro fame insaziabile stanno mangiando le foreste europee. La comunità scientifica ha più volte avvertito come la combustione delle biomasse su larga scala sia tutt’altro che neutrale rispetto alle emissioni di carbonio in atmosfera: è fortemente climalterante, fonte di emissioni nocive per la salute e dannosa per gli ecosistemi. Per fermare queste importazioni bisognerebbe puntare su energie veramente rinnovabili e prodotte con criteri sostenibili, quali solare ed eolico senza consumo di suolo (e con attenzione alle rotte migratorie) e avviare l’era dell’idrogeno verde.
E il legname da opera? Alcuni tipi di legno pregiato, quali quelli tropicali, continueranno a essere importati a prescindere da quanto si taglia in Italia, perché non possiamo produrli qui. Ma sappiamo comunque che la deforestazione nei paesi tropicali è causata soprattutto dagli allevamenti e dalla produzione di olio di palma.
Il legname da opera da specie nostrane invece viene importato proprio perché i nostri boschi sono troppo sfruttati, i tagli hanno turni eccessivamente brevi e non consentono agli alberi di invecchiare abbastanza da poter fornire materiale pregiato per la falegnameria e l’edilizia: per avere del buon legname da opera bisogna lasciare crescere gli alberi, mentre da noi imperversa la gestione a ceduo, buona solo per produrre legna da ardere.
Il ministro quindi non bloccherà la nostra dipendenza dall’estero, ma otterrà solo di depauperare ulteriormente il patrimonio forestale italiano
Quanto al “migliorare la gestione delle foreste”, questo va fatto non certo aumentando i tagli, ma privilegiando la gestione a fustaia rispetto a quella a ceduo: un modo di ottenere il legname necessario più rispettoso della foresta e più lungimirante persino in termini strettamente economici, in quanto aumenterebbe la provvigione delle foreste italiane, riducendo man mano le importazioni di legname adatto a scopi nobili. L’approvvigionamento del legno può essere effettuato con una selvicoltura ecologica che apporti il minor danno possibile agli ecosistemi e soprattutto con l’arboricoltura da legno, che può essere fatta sui moltissimi campi abbandonati e che andrebbe fortemente incentivata.
È ora di superare la visione riduttiva ed economicista delle foreste e persino delle alberature urbane e stradali, considerate come giacimenti di legname, e rendere effettive parole sempre più ricorrenti quanto non praticate, quali “bio”, “sostenibilità”, “bioeconomia” o “transizione ecologica”. Quest’ultima non può essere fatta a colpi di motosega sui nostri alberi.
Le foreste sono un bene comune, una componente fondamentale degli equilibri ecologici: purificano l’aria, regolano e garantiscono qualità e quantità di risorse idriche, sono spazi di vita per la biodiversità, ci difendono dal dissesto idrogeologico, tutelano la nostra salute e sono i nostri più attivi alleati nel contrastare la crisi climatica. Sono una questione ambientale e come tali andrebbero trattate.
Il GUFI appoggia la proposta “Half Earth” del biologo Edward O. Wilson: almeno il 50% della Terra deve essere lasciato alla libera evoluzione naturale, senza intervento dell’uomo, per salvare il clima, gli ecosistemi e le specie che ci vivono, inclusa la nostra. Al momento, in Italia è protetto solo il 14% circa del territorio. Dobbiamo raggiungere il 50% di aree protette, e applicare metodi moderni e rispettosi dell’ambiente nel restante 50% per ricavare i materiali indispensabili all’uomo. Aumentare i tagli va nella direzione opposta a tutto questo: è questa la transizione ecologica che ci era stata promessa?
Link al post del Ministro:
https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=4136694516389252&id=932754746783261
CONTATTI
Valentina Venturi
GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane
340 3386920 | press@gufitalia.it
Nel 2016, è stato pubblicato1 il primo corposo studio scientifico globale condotto su 245 città e metropoli (che ospitano complessivamente un quarto della popolazione a livello mondiale) da cui risulta che nel corso del secolo corrente la popolazione urbana del Pianeta aumenterà di 2 miliardi di abitanti e che tra i fattori di pressione ambientali principali e pericolosi sono stati individuati il PM2,5 (polveri molto sottili, del diametro di 2,5 micron) , attualmente responsabile di 3,2 milioni di decessi prematuri all’anno destinati a divenire 6,2 milioni se non si adottano provvedimenti di contenimento e le ondate di calore estivo attualmente responsabili di 12.000 decessi prematuri/anno e di sofferenza per milioni di persone. Ai ritmi attuali dei cambiamenti climatici che producono aumento d’intensità e di frequenza delle ondate di calore estivo urbano, i modelli previsionali stimano la possibilità di arrivare, nel vicino 2050, a 260.000 decessi anno da stress termico.
Premessa: perché occuparsi del verde nelle città è divenuto urgente e molto importante?
Le 245 città sono state studiate attraverso sistemi satellitari (geospatial information on forest and land cover), le centraline automatiche per il rilevamento in continuo dell’inquinamento atmosferico e delle temperature e con tutti i dati di contorno disponibili. Lo studio ha mostrato che le alberature cittadine attualmente esistenti (current stock of street trees) producono in maniera significativa i seguenti benefici alla popolazione:
– bellezza estetica (paesaggio)
– aumento del valore economico delle abitazioni
– difesa del suolo
– governo delle piogge intense
– riduzione del rumore
– sequestro del carbonio per la mitigazione del clima
– spazi per la ricreazione
– benessere per la salute fisica e mentale
– abbattimento del PM 2,5
– contenimento delle ondate di calore.
Tra le conclusioni ai fini della difesa della salute, si individuano come prioritarie le azioni di mantenimento dell’attuale stock di alberi, l’incremento della dotazione arborea, la necessità di finanziamenti adeguati per il verde pubblico (attualmente generalmente bassi), finalizzati a due principali obiettivi: abbattimento dell’inquinamento atmosferico con particolare riguardo al PM2,5 e l’abbassamento delle temperature estive in ambiente urbano.
La pianificazione del sistema del verde urbano.
In questa materia, probabilmente più che in altre in ragione della complessità dell’ambiente antropico e delle esigenze fisiologiche delle piante, è richiesta interdisciplinarietà: le competenze necessarie afferiscono praticamente a quasi tutte le scienze e quindi includono quelle dei forestali, agronomi, biologi, naturalisti, architetti, medici, chimici, fisici, storici del paesaggio, ingegneri, urbanisti, geologi…ed altre ancora.
Indispensabile, quindi, appare la costituzione, a livello comunale, di consulte o comitati con buona presenza scientifica multidisciplinare, comprendendo le competenze presenti nel terzo settore. Tali organismi sono preziosi non solo per conseguire la migliore progettazione ma anche in fase di gestione e per la verifica, attraverso indicatori ed indici, dei risultati conseguiti nel tempo, e quindi per valutare l’efficacia del Piano per il Verde, per individuare le eventuali criticità e introdurre correttivi e miglioramenti continui che si rendessero necessari.
Indispensabile è anche l’informazione corretta al cittadino e il suo coinvolgimento pieno ed effettivo nella pianificazione, progettazione e gestione del verde; la partecipazione del pubblico dovrebbe essere di livello e di intensità ben superiore rispetto a quanto si fa normalmente (e il più delle volte riduttivamente) nelle ordinarie procedure di Valutazione Ambientale Strategica (VAS) comunque obbligatoria per legge per i piani e i programmi. Il cittadino, pienamente coinvolto e adeguatamente informato, deve essere messo in condizione di diventare il più possibile rispettoso e anche custode attivo del patrimonio verde e, sulla base di un’adeguata “educazione” acquisita, di poter collaborare alla riuscita della pianificazione ecologica ed ecosistemica del verde pubblico, anche orientandosi di conseguenza nelle aree private di propria pertinenza, che spesso per estensione forniscono un contributo significativo al patrimonio arboreo delle città.
La normativa nazionale di base che disciplina il verde urbano, vecchia di oltre 50 anni, è assolutamente inadeguata alle esigenze correnti e avulsa dalla realtà attuale dello stato delle conoscenze in materia di ecologia, di biodiversità, di clima e di ambiente. Si tratta del Decreto Interministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 che reca “Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti…”. Esso disciplina esclusivamente aspetti quantitativi del verde pubblico e fissa come soglie minime per abitante, 18 mq complessivi per spazi pubblici o riservati alle attività collettive, così ripartiti: 4,5 mq per scuole e asili, 2 mq per strutture religiose, culturali, sanitarie e per pubblici servizi, 9 mq per spazi pubblici attrezzati a parco, per il gioco e lo sport e 2,5 mq di aree di parcheggi. Questi standard urbanistici, tuttora vigenti, includono cose assai diverse nella categoria del “verde” e pongono sullo stesso piano una pista asfaltata per il pattinaggio e la superficie complessiva di uno stadio o palazzetto dello sport, con un’area con prati e piantumata con alberi per cui è possibile pervenire, al limite, ad una pianificazione che, pur rispettando i limiti minimi fissati dalla legge, può risultare pressoché priva di verde pubblico effettivo, minimamente degno di questo nome.
L’ISPRA nel 2010 ha pubblicato un interessante documento di 68 pagine, dal titolo: “Verso una Ecosistemica delle Aree Verdi Urbane e periurbane. Analisi e proposte”che ha colmato il vuoto
istituzionale esistito fino ad allora sull’argomento. Il documento è scaricabile dal sito istituzionale dell’Istituto2.
La Legge 14 gennaio 2013 n. 10 “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”, torna sull’argomento e, tra le altre cose, all’art. 3 prevede l’istituzione presso il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare di un Comitato per lo sviluppo del verde pubblico. Tra i molteplici compiti attribuiti al Comitato troviamo il monitoraggio sull’attuazione della legge 29 gennaio 1992, n. 113 (obbligo di piantare un albero per ogni bambino nato), la promozione di attività degli enti locali interessati al fine di individuare i percorsi progettuali e le opere necessarie a garantire l’attuazione delle disposizioni, l’elaborazione di una proposta di Piano nazionale per fissare i criteri e linee guida per la realizzazione di aree verdi permanenti intorno alle maggiori conurbazioni e di filari alberati lungo le strade, adeguamento dell’edilizia e delle infrastrutture pubbliche e scolastiche che garantisca la riqualificazione degli edifici… anche attraverso il rinverdimento delle pareti e dei lastrici solari, la creazione di giardini e orti e il miglioramento degli spazi. All’art. 4 della predetta legge 10 poi è stabilito che il Comitato segnala “I comuni che risultino inadempienti rispetto alle norme di cui al decreto ministeriale n. 1444 del 1968”. Per quanto riguarda i criteri di pianificazione e di progettazione del verde pubblico, ribadendo gli standard inadeguati e riduttivi della vecchia legge del 1968, questa più recente normativa delega al Comitato la redazione di linee guida regolatorie.
Le “Linee guida per il governo sostenibile del verde urbano”– elaborate dal Comitato per lo sviluppo del verde pubblico – sono state pubblicate dal Ministero dell’Ambiente, del Territorio e del Mare nel 2017 (acquisibile dal sito istituzionale del Ministero) e constano di 60 pagine e 7 capitoli che racchiudono: conoscenza, pianificazione strategica, progettazione, piano di monitoraggio e gestione, indicatori per il governo, formazione degli addetti, comunicazione promozione e partecipazione del pubblico.
Tuttavia a fronte di un lavoro complesso e accurato a cui hanno partecipato l’ANCI, il CONAF, l’ISPRA e l’associazione dei Direttori Tecnici dei Pubblici Giardini, va rilevato che (si riporta esattamente come è scritto nello stesso documento): “le Linee Guida non sono prescrittive, ma rappresentano solo uno strumento di consultazione e informazione per tutti i comuni italiani, grandi e piccoli, utili per procedere correttamente e proficuamente nelle attività di pianificazione e di gestione del verde urbano”.
Lo Stato, in pratica, non ha adottato ad oggi, con provvedimenti cogenti (tramite decreto o legge) le linee guida che così rappresentano un mero “suggerimento”, peraltro assai poco conosciuto. Per coprire la lacuna legislativa sono stati adottati nel tempo a livello locale, diversi strumenti comunali di programmazione quali il regolamento del verde pubblico e/o privato, il censimento-anagrafe del verde, la carta del verde urbano, il piano del verde, il piano regolatore del verde urbano. L’ultimo di tali strumenti – il Piano Regolatore del Verde Urbano a suo tempo avviato dal comune di Viterbo in collaborazione con l’università della Tuscia, è quello che dal punto di vista dell’efficacia metodologica offre maggiori possibilità di una gestione adeguata e sostenibile dal punto di vista ecologico, economico, sociale e culturale. Un tale Piano, in generale, consente al Comune di decidere, in maniera partecipata, la qualità, la quantità, la composizione, la distribuzione delle specie arboree, arbustive, di liane ed erbacee da introdurre negli spazi destinati a Parco, giardino pubblico, aree di pertinenza degli edifici pubblici, filari, prati, aiuole, rotatorie, spartitraffico e, ove esistano, la disciplina della vegetazione delle sponde dei corsi d’acqua.
Il Piano Regolatore del Verde Urbano può assorbire e integrare tutti gli altri strumenti sopra citati adottati dai Comuni: può includere il censimento da riportare nella “carta di rilievo del verde urbano” preferibilmente realizzata di fine dettaglio e con georeferenziazione su data base, e la “carta del verde urbano”, strumento di indirizzo utile a sensibilizzare e impegnare i vari attori sociali per la tutela di un bene comune. Utile, unitamente alla sempre necessaria partecipazione dei cittadini nelle consulte per il verde, anche il coordinamento interno tra uffici comunali sul medesimo argomento. A tal riguardo si segnala l’attivazione avvenuta diversi anni fa presso il comune di San Benedetto del Tronto della “Conferenza dei Servizi Permanente sul verde urbano”, composta da tutti i servizi ed uffici che in vario modo svolgono attività che interessano il verde pubblico o possono incidere su di esso. Il tema del verde urbano non è quindi da considerare riduttivamente un “settore di intervento” fra i tanti presenti in città: deve essere inquadrato con ottica di sistema e permeare tutta la programmazione comunale ad ogni livello: urbanistico, della mobilità ecc. ed essere integrato negli strumenti urbanistici (PRG in primis) e nell’attività delle Commissioni Edilizie. Solo dando al Piano del verde la dignità istituzionale e la cogenza amministrativa di un Piano Regolatore Generale è possibile, infatti, pianificare efficacemente in una visione di medio-lungo periodo il verde urbano ,evitando che esso sia costituito da ciò che risulta dal diritto ad edificare, con aree frammentate e collocate in posizioni non ottimali.
I contenuti minimi del Piano Regolatore Comunale del Verde Urbano consistono nel Quadro conoscitivo (censimento quali/quantitativo e distribuzione della vegetazione esistente), un Piano di Indirizzo e Norme Tecniche di Attuazione che includano anche gli interventi manutentivi e gestionali. Il suo sviluppo applicativo può essere fatto per piani annuali (generalmente chiamati Progetto del Verde) che possono riguardare anche aree limitate e non l’intero complesso del verde comunale, analogamente a quanto avviene con i Piani Particolareggiati. Le linee guida per una gestione sostenibile del verde urbano redatte dal Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, indicano inoltre che nel Piano del Verde dovranno essere poi chiaramente esplicitati i meccanismi di attuazione e di monitoraggio degli obiettivi prefissati e man mano raggiunti, tra cui:
– la relazione, in un’ottica di pianificazione integrata e multi-obiettivo, con altri strumenti e piani urbani di settore (Piano dei Servizi, Piano del traffico, Piano Urbano Generale dei servizi nel sottosuolo, etc.);
– le indicazioni programmatiche per il piano triennale delle opere pubbliche; i progetti operativi e le soluzioni progettuali da realizzare nel breve-medio termine con le risorse finanziare individuate;
– gli indicatori di monitoraggio.
– Nel momento in cui il PdV affronta le problematiche relative alla previsione di nuove aree, non può prescindere dal definire i cosiddetti “indicatori di rigenerazione urbana”: questi consentono, ad es., di verificare i valori degli interventi rispetto alla permeabilità del suolo e alla presenza della vegetazione, sviluppando sistemi che siano in grado di mitigare gli eventi meteorici intensi legati ai cambiamenti climatici (rain garden, dry garden, verde tecnologico); più in generale vanno identificati gli indicatori per monitorare lo sviluppo del piano ed il raggiungimento degli obiettivi prefissati; i meccanismi di finanziamento e di reperimento risorse per la realizzazione delle soluzioni progettuali individuate (eventuali espropri, etc.);
– il piano di informazione-comunicazione per il coinvolgimento, la partecipazione e la sensibilizzazione.
Anche la Strategia nazionale per il verde pubblicata a Maggio 2018 individua nel Piano comunale del verde lo strumento chiave per città più resilienti.
Le piante nell’ambiente urbano.
Alberi, arbusti ed erbe esistevano ben prima della comparsa del genere Homo nel Pianeta e loro fisiologia, autoecologia e il loro aspetto odierno è frutto della selezione operata dalla natura in alcune centinaia di milioni di anni. Tuttavia in un ambiente così particolare quale quello urbano, queste entità sono soggette a molteplici fattori di stress che non avevano mai subìto in natura nella loro storia evolutiva; ne deriva che per un approccio appropriato al verde urbano, è necessario assumere un punto di vista olistico e programmare un’adeguata pianificazione urbanistica locale e una gestione che tengano conto delle esigenze delle piante e dei problemi di convivenza con l’uomo e le sue attività, inclusi gli aspetti che possono rappresentare, in casi particolari, perfino un fattore di rischio o di pericolo.
Le piante in città, in qualsiasi forma o disposizione, sono una componente di grandissima importanza per l’umanità perché svolgono funzioni estetico-paesaggistiche, identitarie, ricreative, ecologiche e sanitarie: i cosiddetti “servizi ecosistemici” in quanto promuovono la salute e il benessere dei cittadini.
Le funzioni “ambientali” del verde pubblico e privato sono vastissime, e vanno considerate nell’immediato e a lungo termine anche perché i tempi di maturazione e di vita delle piante sono diversi da quelli degli umani e generalmente assai più lunghi. La progettazione e il mantenimento, pertanto, richiedono un largo concorso di esperienze, di osservazioni specialistiche e storiche, conoscenza del territorio e di abilità e, in definitiva, sempre nell’ottica dell’interdisciplinarietà e partecipazione dei cittadini informati per una gestione ecosistemica.
Va chiarito che il verde urbano propriamente detto include diverse tipologie: le alberate, i parchi, i giardini pubblici e il verde periurbano, che hanno caratteristiche molto diverse fra loro e queste condizionano la progettazione degli impianti e le loro finalità. A riguardo occorre tenere presente che gli alberi sono in relazione comunicativa in primis col mondo degli insetti, ma anche con la fauna superiore, essendosi sincronizzati nel corso della co-evoluzione naturale per l’impollinazione attraverso attrazione attuata con l’emissione nell’aria di sostanze chimiche che noi percepiamo generalmente come “profumi di essenze”, per la propagazione dei semi, per la lotta ai parassiti; in aggiunta comunicano e intrattengono interscambi simbiotici anche con gli organismi presenti nel suolo (batteri, funghi microscopici e macroscopici, invertebrati); comunicano altresì fra loro anche sotto terra, attraverso le radici che si intrecciano reciprocamente formando anastomosi, sia con individui vicini della stessa specie che fra specie diverse con cui amano costituire “associazioni vegetali” la cui rete di relazioni produce reciproco vantaggio. La rete di relazioni infra- e inter-vegetazionale, complessa e invisibile che si instaura e con le altre forme di vita è decisiva per il reciproco sostegno trofico, per la riproduzione, per la difesa dagli attacchi da parassiti, per la stabilità meccanica. Il finissimo micelio fungino in rapporto con le radici (simbiosi micorrizica), inoltre, fornisce all’albero sostanze nutrienti e ha la capacità di sollevare l’acqua da decine di metri di profondità fino agli strati di suolo più superficiali, mantenendone l’umidificazione a beneficio proprio e dell’albero oltre che delle forme di vita legate al suolo. Esso svolge anche un’azione protettiva nei confronti delle piante con cui è in rapporto, dal momento che l’acqua che trasferisce capillarmente viene filtrata da eventuali contaminanti di origine naturale o antropica. Le condizioni di impianto migliori dal punto di vista ecologico possono essere riprodotte per i parchi e per il verde periurbano ove è possibile favorire le associazioni vegetali tipiche fra alberi, arbusti, essenze erbacee e liane come l’edera. Più delicata è la situazione dei giardini pubblici soggetti a maggiore pressione antropica e a calpestio e compattazione del suolo mentre quando si vanno a realizzare le alberate dei viali diviene importante più che mai il “sesto d’impianto” (vale a dire la distanza fra alberi e arbusti)
e l’area libera di pertinenza che deve garantire gli scambi gassosi e la relazione comunicativa fra gli alberi.
Nell’architettura moderna sono degni di nota interventi di “verde verticale” sulle pareti degli edifici, munite di vasconi (grandi fioriere integrate nel costruito), di “tetti verdi” e giardini pensili. In tali circostanze occorre tenere presente la tipologia dei vegetali da impiantare considerando il loro sviluppo dimensionale, l’isolamento delle piante, la necessità di fornitura di acqua e nutrienti che la pianta non è in grado di procurarsi da sola, l’esposizione alla luce e ai venti e tutti i possibili effetti collaterali anche negativi che un simile impianto può comportare. Ad esempio si è verificato che pareti verdi intensamente vegetate abbiano provocato, in cortili scarsamente ventilati, moria per asfissia di piccoli animali per la stratificazione a terra dell’anidride carbonica esalata dai vegetali di notte quando, cessata la fotosintesi, era attiva unicamente la respirazione.
Infine vanno considerati i casi, non diffusamente estesi ma pure importanti, di specie esotiche come espressione artistica o didattica di giardini e orti botanici (questi ultimi di grande valore sia storico-culturale che scientifico, per la tutela ex-situ della biodiversità vegetale).
I fattori di stress delle piante in città.
In natura e nel corso della loro evoluzione, gli alberi raramente sono vissuti come singoli individui isolati, ma hanno dato luogo a formazioni forestali, ad associazioni vegetali e a rapporti simbiotici con il mondo animale e con i viventi del suolo, microscopici o visibili a occhio nudo. Il bosco è un ecosistema ossia un sistema complesso autosufficiente dominato da alberi, la cui componente biotica è costituita da piante di varie specie, età e dimensioni e da animali, funghi, batteri ed altri organismi con interrelazioni integrate fra loro e con l’ambiente chimico-fisico. Il bosco non ha bisogno dell’uomo per perpetuarsi, ha vissuto benissimo per oltre 300 milioni di anni in assenza degli umani mentre, al contrario, è la vita dell’uomo ad aver bisogno del bosco e del mondo vegetale. La nostra dipendenza dalle piante è assoluta e continua e non solo per gli alimenti e altre utilità che direttamente o indirettamente producono: basta smettere di respirare per qualche minuto per rendersene conto. Da tenere presente che l’ossigeno in forma molecolare presente nell’atmosfera che respiriamo, è prodotto unicamente dalla fotosintesi clorofilliana; nei tempi remoti non era presente sulla Terra e solo la comparsa dei vegetali che lo hanno prodotto come loro “rifiuto” ha consentito lo sviluppo della vita superiore e la nostra di umani. Dobbiamo tutto alle piante, minuto per minuto.
Per questo semplice motivo il bosco è soggetto di diritti, di cui sono titolari anche gli alberi come singoli individui che lo costituiscono. L’analisi del DNA degli alberi mostra che ogni individuo è diverso dagli altri della stessa specie e, come nell’uomo, è possibile verificare i rapporti di parentela fra loro. In natura nei boschi l’unione fa la forza: le piante più esterne alla formazione, che possiamo chiamare “piante di frontiera” perché più esposte ai venti, alle bufere, alle valanghe, agli aerosol marini, all’inquinamento atmosferico, agli attacchi di parassiti, con la loro presenza e resilienza (capacità di resistere alle perturbazioni ambientali e alle avversità), proteggono lo stato di salute del resto della comunità forestale. Tranne eccezioni gli alberi in genere non amano stare soli, anche se individui isolati mostrano una straordinaria capacità di adattamento. In città, invece, soprattutto lungo le strade, se ci pensiamo bene tutti alberi sono nelle stesse condizioni di quelli di frontiera e in aggiunta esposti senza protezione a innumerevoli
fattori di stress sconosciuti alla natura e mai incontrati nel corso dell’evoluzione naturale come quelli prodotti dall’uomo nelle aree densamente popolate. Il fatto di trovarsi in un contesto – quello urbano- così particolare e artificiale non deve farci dimenticare comunque i diritti e le esigenze minime degli alberi ma, al contrario, ci obbliga anche soltanto dal punto di vista utilitaristico, a considerare la necessità di ridurre al massimo i fattori di stress e il benessere delle piante per una convivenza pacifica tanto utile quanto necessaria. I principali fattori di stress sono di seguito elencati.
– Sito d’impianto inadeguato: si impiantano alberi senza badare (cosa peraltro facilissima) allo sviluppo che l’organismo vegetale avrà man mano che cresce. Così dopo qualche tempo vediamo marciappiedi occlusi, impraticabili, fastidio agli edifici per la eccessiva vicinanza agli stessi, rischio di interruzioni per le linee aeree elettriche o telefoniche, oppure sollevamento del manto stradale operato dalle radici troppo superficiali (fenomeno, questo, indotto soprattutto quando si mettono a dimora alberi di dimensioni abbastanza grandi, necessariamente “zollate”, in vaso, prive delle radici “a fittone”, vale a dire verticali che arrivano a profondità elevate aumentando la stabilità dell’organismo).
– Specie arboree inadatte: Si piantano alberi e arbusti, orientando le scelte secondo il capriccio dell’uomo, accordando preferenze il più delle volte a specie e varietà provenienti da climi completamente diversi dal nostro, pertanto con esigenze diverse e per questo soggetti a parassitosi, indebolimento e, in generale, a problemi fitosanitari. Spesso individui di queste specie, deportati dai loro luoghi d’origine spontanea e inadatte al clima in cui sono collocati, non vivono ma sopravvivono anche miseramente. Ho potuto constatare, ad esempio, una Sequoia gigantea (Sequoiadendron giganteum), una cupressacea che in Sierra Nevada e in California raggiunge i 95 m di altezza e 9 m di diametro al colletto (ma ne esiste un esemplare col diametro incredibile di 32 metri), che piantata negli anni ’50 in un giardino nei pressi di Latina, al di fuori del suo ambiente naturale d’origine è rimasto un alberello di modestissime dimensioni che non cresce e non muore . Altre specie estranee al nostro clima e all’ecologia degli ambienti del nostro continente possono diventare, al contrario, infestanti e non controllabili.
– Terreno inadatto: il suolo non è solo il sito di ancoraggio delle piante ma anche la matrice in cui si svolgono i processi biologici di scambi e di trasformazione di materia (acquisizione di acqua e di nutrienti, respirazione delle cellule radicali) e di energia appartenenti alla normale fisiologia delle piante. La qualità del suolo, la sua fertilità, se scadenti, sono fattori possono danneggiare le piante e il successo degli impianti di nuove alberature. Va anche detto che la scelta delle essenze da impiantare deve essere comunque orientata anche rispetto alle condizioni pedologiche del luogo inteso come microhabitat: in suoli con elevato grado di umidità naturale andranno preferite, ad esempio, le Salicacee (Pioppi e Salici) oppure Ontani o i Frassini, mentre su suoli tendenzialmente aridi specie diverse adatte a quelle condizioni puntuali. In ogni caso il suolo dev’essere fertile, con una buona dotazione di carbonio organico e biologicamente vivo: con le radici degli alberi entrano in rapporto diversi simbionti, a partire dalle estese formazioni delle ife microscopiche dei funghi per finire ai lombrichi e al resto della fauna invertebrata del suolo con particolare riguardo agli artropodi, il
gruppo animale più numeroso appartenente alla comunità, a sua volta vastissima, degli invertebrati.
– Inquinanti atmosferici. Sono soprattutto i gas di scarico residui delle combustioni (che avvengono in maniera diffusa nei motori e nelle caldaie per il riscaldamento), e annoverano principalmente ossidi di Azoto (NOx) , ossido di Carbonio (CO), e in minima parte gli ossidi di Zolfo (anidride solforosa e solforica, diminuite nel tempo rispetto agli anni ’60 per i provvedimenti di limitazione delle impurità di zolfo contenute nei combustibili), idrocarburi. Esistono poi altri inquinanti emessi in misura minore ma tutti pericolosi per la salute umana come le polveri e Composti Organici Volatili (COV) che alimentano fenomeni fotochimici che portano alla formazione di ozono troposferico (O3) di formazione secondaria sotto l’azione della radiazione solare. I gas inquinanti vengono abbattuti in maniera significativa dalle piante e dal suolo fertile (inclusi i prati, con le loro componenti microbiche naturali), specie se umido. L’ossido di carbonio, ad esempio, viene abbattuto rapidamente dal suolo ove una dozzina di specie di funghi microscopici comuni in ogni terreno fertile, lo assorbono e se ne nutrono. Se però quegli inquinanti si trovano nell’ambiente in concentrazioni elevate, in sinergia con altri contaminanti e in condizioni climatiche sfavorevoli, si può arrivare a superare i limiti di tolleranza anche per le piante (che annoverano specie più resistenti e specie assai sensibili), che così si ammalano e arrivano a perire. Particolarmente nociva è anche l’eccessiva acidificazione dell’aria originata dai gas inquinanti che si combinano con l’acqua dell’umidità atmosferica. Il complesso suolo-vegetazione in definitiva, è un efficiente sistema di depurazione naturale dell’aria ma con dei limiti; come si diceva nella Scuola Salernitana di antica memoria, “contra vim mortis non est medicamen in hortis..”: contro la forza della morte non v’è rimedio nell’orto.
– Inquinamento atmosferico da materiale particolato. Il materiale particolato (particelle che inquinano l’aria, denominate PM10 perchè del diametro medio di 10 Micron, vale a dire 10 millesimi di millimetro, e PM 2,5 e inferiori), viene trattenuto dal fogliame e fissato nel suolo fertile, specie se umido. Fra tutti gli inquinanti, queste particelle sono riconosciute come la principale causa di tumore e di morte per l’uomo: in letteratura è riportato che in Italia si stimano 91.000 morti prematuri per inquinamento atmosferico in un anno, e 66.630 sono dovuti al PM2,5, 21.040 al biossido di azoto (NO2) e 3.380 all’ozono (O3). Gli alberi abbattono il particolato intrappolandolo nella micro-peluria delle foglie o appiccicandolo su quelle, se resinose. Uno studio condotto a Londra quantificando la polvere depositata sui mobili all’interno delle case lungo strade, con assenza di alberi e poi sulle stesse alberate con betulle, ha mostrato che l’alberatura stradale ne abbatteva il 50%. Tuttavia concentrazioni elevate di PM 2,5 alla fine danneggiano eccessivamente anche le foglie quando vanno a collocarsi diffusamente all’interno degli stomi (minuscole aperture composte da due cellule, piccole “bocche” invisibili a occhio nudo, disseminate sulla superficie delle foglie) che così sono impediti a regolare, grazie alla loro sensibilità, la propria apertura e chiusura per consentire i necessari scambi controllati di acqua e di gas tra pianta e atmosfera. La pianta così va in sofferenza.
– Inquinamento da metalli pesanti. I metalli pesanti tossici (fra cui Piombo, Mercurio, Cadmio, Zinco, Rame, Stagno, Nichel e, recentemente, anche Platino, Palladio e Rodio e altri metalli rari, derivanti dalla degradazione delle moderne marmitte catalitiche)
presenti nell’aria o nei suoli inquinati, possono essere assorbiti dalle piante e fissate nel proprio tessuto vivente. Talvolta queste sostanze vengono bloccate e trattenute all’esterno delle radici, oppure incapsulate in vacuoli cellulari che ne neutralizzano la tossicità rendendoli non biodisponibili oppure assorbite e distribuite nei tessuti dell’intero organismo. Le piante appartenenti a specie comuni come i pioppi e i salici, in aree con presenza di contaminanti di origine naturale (ad es. mercurio nel Monte Amiata, arsenico e idrocarburi nella Majella) hanno acquisito nel corso dell’evoluzione naturale anche strategie efficaci per difendersi dalla tossicità di queste sostanze rendendole sequestrate e isolate a livello biologico al loro interno, tanto che molte di esse vengono oramai utilizzate come assorbitrici di inquinamento per la bonifica di suoli nei siti contaminati (Fitorimedio). Anche in questo caso però se si superano determinati limiti la pianta può andare in sofferenza ma, per fortuna, tali limiti sono veramente assai elevati.
– Inquinamento da Idrocarburi. Possono essere idrocarburi incombusti (sgocciolamento di olio lubrificante e particelle di grasso dai veicoli, oppure inquinanti dell’aria derivanti dallo scarico dei motori a due tempi dei motocicli che ne emettono in quantitativi elevatissimi) o residui di combustione, in forma di aerosol particolato o sostanze gassose. Per gli umani molte di queste specie chimiche sono cancerogene (in particolare lo sono i policiclici aromatici, il benzene, il toluene e lo xilene) ma le piante e il suolo fertile hanno capacità di depurazione assai elevate; molti inquinanti di questo tipo vengono demoliti e metabolizzati dal suolo e dalle piante, quindi ridotti in definitiva all’innocuità. L’attività microbica del suolo accelera la velocità di biodegradazione anche delle sostanze aromatiche come i fenoli, molecole piuttosto stabili nel tempo e quindi resistenti alla degradazione.
– Rumore e vibrazioni Le piante, attraverso il fogliame, attutiscono l’inquinamento acustico fungendo da vera e propria barriera fonoassorbente vivente. Tuttavia questi fattori fisici eccessivi e prolungati, possono provocare anche stress, indebolendole in diversa misura. È nota, infatti, la sensibilità dei vegetali anche alle vibrazioni con determinate frequenze: quando ad esempio le cellule di una foglia percepiscono i suoni provocati dalla mandibola di un bruco che incomincia a masticarle, reagiscono emettendo segnali interni che stimolano l’emissione di cere e di prodotti chimici repellenti per gli insetti in tutta la pianta e lo stesso fanno quelle vicine. In città le vibrazioni del suolo prodotte da metropolitana e dai mezzi pesanti, stimolano le piante ad allungare le radici e a radicarsi più fortemente, fatto positivo perché ne aumenta la resistenza ai venti molto forti e diminuisce il rischio di schianto. In definitiva le cellule vegetali “sentono” i segnali acustici, vibrazionali e chimici rendendosi conto dell’esistenza di pericoli nell’ambiente e reagiscono con proprie strategie di difesa “avvertendo” anche le consorelle vicine.
– Inquinamento luminoso. Ê un importante fattore di stress per gli alberi. In inverno, quando le foglie sono oramai cadute, è facile vedere, ad esempio nei pioppi, che i rami nei pressi dei lampioni a luce abbastanza forte portano ancora tutte le foglie mentre il resto dell’albero è spoglio così come tutti quelli, della stessa specie, dell’intorno. Ciò avviene perché è stato alterato il “fotoperiodo”, l’orologio interno delle piante che si basa sulla “misurazione” percettiva della durata delle ore di luce rispetto a quella delle ore di buio e che regola le fasi biologiche annuali del vegetale.
– Potature mal fatte. L’albero auto-regola la propria forma e postura, per ottenere la migliore stabilità, capacità di catturare la luce, resistere a venti e alle correnti d’aria del luogo esatto ove si trovano, per la migliore ricerca dell’acqua e dei nutrienti. I rami sono disposti nello spazio in maniera da limitare al massimo l’ombra fra di loro e le foglie si dispiegano perché tutte possano catturare quanta più luce possibile; se osserviamo un abete, ad esempio, vediamo che le foglioline più in alto sono orientate tutte verticalmente per lasciar filtrare la luce verso quelle sottostanti e man mano che si procede verso il basso le stesse sono sempre più orizzontali ed espongono la maggiore superficie possibile. Le foglie dei pioppi, poi, sono particolari con il loro picciòlo allungato e stretto lateralmente; così possono oscillare vistosamente con vento anche debolissimo e lasciare passare luce alle foglie sottostanti, assicurando all’albero l’energia per la crescita rapida e l’evapotraspirazione che in questa specie sono fenomeni molto elevati. Potature mal fatte – spesso vere e proprie capitozzature – alterano l’equilibrio posturale spontaneo, rendono instabili gli alberi e, attraverso le “ferite” da taglio, espongono alla penetrazione nell’albero di microfunghi, batteri, virus che creano deformazioni, calli mostruosi, carie interna, attacchi del tronco da parte di funghi saprobici. Praticamente mai, tranne rarissime eccezioni, i tagli da potatura degli alberi in città vengono protetti con appositi “medicamenti” (in forma di speciali vernici isolanti e non tossiche, peraltro assai poco costose) per scongiurare infezioni che generano parassitosi e conseguenti cadute di rami e che spesso sono letali per l’albero con schianti pericolosi per la sicurezza dei cittadini. Le capitozzature producono il disseccamento delle radici a fittone che sono quelle verticali profonde che più assicurano la stabilità dell’albero. Anche il taglio di rami principali portano al disseccamento delle corrispettive radici a cui erano fisiologicamente connessi, col risultato di favorire l’instabilità degli alberi. Altro fattore di instabilità deriva dalle potature che rendono gli alberi sottili e “filanti”, tutti sviluppati in altezza, con ciò sottoposti ad un braccio di leva che ne facilita la caduta sotto la spinta del vento.
– Spazio insufficiente per lo sviluppo delle radici. L’attenzione a creare le condizioni per il miglior sviluppo delle radici è generalmente bassa o nulla. Eppure da questo dipende gran parte della salute della pianta e, soprattutto, la sicurezza che l’albero non cadrà su persone o sulle automobili allo spirare di venti di forte intensità. Al di là della pratica di reciderle perché magari sollevano pavimentazioni o il manto stradale o per interrare cavi e tubazioni, occorre considerare che le radici devono potersi sviluppare in maniera adeguata ed armonica anche per svolgere la funzione di solido sostegno. L’apparato radicale, dotato di finissima sensibilità, è per gli alberi un importante “centro di comando” della fisiologia dell’intero organismo, di “comunicazione” col biota circostante e dal suo sviluppo dipendono il loro stato di salute e la longevità.
– Atti sconsiderati attuati dall’uomo. Gli alberi in città sono soggetti anche ad attacchi prodotti dall’uomo, per accidente, per ignoranza o deliberatamente. Si pensi agli insulti prodotti ai tronchi con all’infissione di chiodi o, peggio, con cercini di metallo, con cappi di cavi d’acciaio che stringono sempre di più con l’accrescimento e provocano calli mostruosi e che possono portare la pianta alla morte, letteralmente “per impiccagione”. Si pensi ancora a chi, dopo aver lavato le vetrine dei negozi o i pavimenti, butta acqua sporca con detergenti chimici entro le aiuole, avvelenando le radici. Capita anche di vedere automobili parcheggiate in parte sopra il terreno attorno all’albero o sull’aiola,
compattandolo, impedendo così l’assorbimento dell’acqua piovana e la respirazione radicale. Frequenti sono pure le potature abusive fatte in proprio da privati o sollecitate al Comune, al solo scopo reale di far vedere da tutte le angolazioni e da più lontano possibile le insegne e le vetrine dei negozi, ed esistono persino avvelenamenti deliberati di alberi per gli stessi motivi. Questi comportamenti vanno stigmatizzati, sanzionati e combattuti soprattutto con la cultura e la conoscenza e rimpiazzando sempre e rapidamente l’albero soppresso. Va detto, di converso, che esistono anche casi opposti, virtuosi: persone che adottano un’aiuola, un piccolo spazio verde pubblico, che curano l’albero di fronte alla propria casa o luogo di lavoro, che offrono all’albero sul suolo pubblico il soccorso con un po di acqua nei periodi di massima siccità.
I benefici degli alberi in città (servizi ecosistemici resi all’uomo)
Premesso che gli alberi sono da rispettare in sé, al di là delle considerazioni utilitaristiche, in quanto organismi complessi, dotati di fortissima autosufficienza, pilastri della biodiversità e degli ecosistemi naturali, titolari di diritti, elementi fondamentali degli equilibri ecologici locali e globali, non possiamo non considerare e apprezzare anche i “servizi ecologici” resi da queste creature anche alla comunità umana. Tali servizi riguardano il sistema albero-ambiente (sia aereo che in riferimento al suolo fertile) e possono essere così schematicamente riassunti.
Produzione di ossigeno, fatto noto a tutti ma non altrettanto noto è che, dal momento che la diffusione di questo gas nell’atmosfera è un fenomeno piuttosto lento, più si è vicini agli alberi e maggiore è l’ossigenazione benefica localmente presente.
Assorbimento dell’anidride carbonica : gli alberi, e il mondo vegetale, sono grandi regolatori del clima globale in quanto contengono il riscaldamento del Pianeta entro limiti ottimali per la vita e per l’uomo. Non c’è altro sistema o rimedio per sottrarre rapidamente l’anidride carbonica, principale gas serra, presente attualmente in eccesso nell’atmosfera. La lotta ai cambiamenti climatici vede negli alberi i principali alleati dell’umanità.
Regolazione del microclima locale attraverso l’umidificazione dell’aria: in estate nell’aridità spinta delle città, l’evapotraspirazione delle piante produce notevole miglioramento del microclima e quindi benessere.
Contenimento dell’“isola di calore” urbana: le piante non si limitano a produrre ombra e a riflettere ed assorbire radiazione solare, ma attraverso l’evapotraspirazione, abbassano sensibilmente la temperatura del luogo in cui si trovano. Creano frescura, comportandosi come vere e proprie pompe di calore, autentici condizionatori della temperatura dell’aria
ambiente. Il passaggio di stato dell’acqua da liquida a vapore, infatti, sottrae energia (e quindi calore) dall’ambiente circostante, raffreddandolo. E fanno questo servizio termodinamico gratuitamente e in autonomia. Sono pertanto una risposta alla mitigazione e all’adattamento nei confronti soprattutto delle ondate di calore estive sempre più frequenti soprattutto in città ove di parla di “isole di calore” esasperate a causa dei mutamenti climatici e dell’intorno occupato da edificato e asfalto che si riscaldano notevolmente; le ondate di caldo torrido responsabili, secondo le statistiche, di innumerevoli decessi prematuri soprattutto tra le persone
anziane. Oggi i decessi prematuri dovuti a questa causa sono stimati, nel mondo, in 12000 all’anno, destinati a divenire 260000 al 2030.
Miglioramento dell’equilibrio idrogeologico: Le superfici attrezzate a scopo di drenaggio divengono anche spazi urbani di qualità, verdi, habitat naturali, che contribuiscono a connettere in rete parchi, giardini, quartieri e possono essere realizzati anche in forma di stagni di bellezza naturaliformi, utili tra l’altro alla riproduzione di varie specie animali come gli anfibi. Gli interventi denominati Green Streets consistono nel graduare dolcemente le pendenze di strade, piazzali e marciapiedi per convogliare le acque piovane verso aiuole o aree fertili ove possono essere assorbite nel suolo. Si alleggerisce, in questo modo, l’immissione delle acque nel sistema fognario e si evita che le portate idriche di supero che non possono essere accettate dagli impianti di depurazione che hanno necessariamente capienza limitata, vengano sversate direttamente nelle acque superficiali. Queste aree assorbenti rendono assai gradevole il clima e la bellezza della città e dei quartieri e ne migliorano l’aspetto con una grande varietà di piante che possono contare su maggiori riserve idriche sotterranee di cui alimentarsi. La ricarica delle falde contribuisce anche all’equilibrio idrogeologico dell’ambiente urbano e alla sopravvivenza o alla rinascita di sorgentelle locali che spesso alimentano antiche fontane oramai non più utilizzate a seguito dell’arrivo dei moderni acquedotti o addirittura andate in asciutta, ma che hanno un valore storico, demo-antropologico e urbanistico e talvolta monumentale. Va pertanto abbandonata la pratica di isolare gli alberi imprigionandoli in spazi angusti con muretti o addirittura con inutili vasconi di cemento.
Detossificazione dell’aria: i cosiddetti “ossidi di azoto”, gas tossici derivanti dalle combustioni, che chimicamente in realtà andrebbero chiamate “anidridi”, sono molecole avide di acqua con la quale reagiscono prontamente formano i rispettivi acidi. In condizioni normali i due gas, l’azoto e l’ossigeno molecolari, componenti normali dell’atmosfera in cui siamo immersi (circa il 78% per l’azoto e 21% per l’ossigeno) non reagiscono fra loro. Per potersi legare e formare le anidridi occorre che l’aria sia portata a temperature assai elevate che aumenti l’agitazione delle molecole, un “impazzimento” che produce e urti “efficaci”, oppure che vi sia una compressione elevatissima che costringa le molecole unirsi per forza. La prima cosa avviene con le combustioni, ma il motore a combustione interna è lo strumento più efficace perché svolge entrambe le funzioni: riscaldamento con lo scoppio e simultanea compressione. Gli acidi Nitroso e Nitrico) derivanti da quelle anidridi gassose reagendo, sempre con rapidità, con i minerali del suolo e con le superfici lapidee formando nitriti e nitrati, molecole assai solubili, che sono nutrienti-fertilizzanti per i vegetali. Il sistema suolo-piante, quindi aiutano a rimuovere dall’aria questi pericolosi inquinanti di cui alla fine i vegetali si nutrono. Le piante assorbono un una quantità di inquinanti atmosferici oltre ai composti dell’Azoto: esperimenti condotti a New York, per esempio, hanno stimato che nel 1994 gli alberi della città hanno rimosso circa 1800 tonnellate di inquinanti atmosferici, con un valore in termini di risparmio per la società di 9,5 milioni di dollari. Uno studio condotto su un’area verde a Milano ha mostrato che una superficie boscata al 30% apportava un sequestro annuo di un quarto degli inquinanti rispetto a pari superfici prive di alberi. Si ribadisce comunque che questi sono ancora dati parziali e sottostimati: abbattitori infatti sono anche semplici prati erbosi, arbusti, filari di siepi e il suolo fertile. Ovviamente anche per questo aspetto gli eccessi sono da evitare perché nuocciono anche alle piante soprattutto per l’acidificazione delle foglie per le deposizioni dall’aria. In città l’alternativa all’impiego delle piante nella detossificazione dell’aria siamo noi umani; infatti ciascuno espone mediamente circa 140 metriquadri di superficie polmonare umida agli inquinanti atmosferici: inaliamo anidridi trattenendone i rispettivi acidi nel nostro organismo, e
assorbiamo polveri e particolato, il già descritto PM . A chi obietta sulla necessità di operare forestazione urbana andrebbe chiesto se la detossificazione dell’aria convenga farla fare ai vegetali con il loro suolo..oppure alle decine di ettari di superficie polmonare umida dei cittadini che non possono fare a meno di respirare.
Contenimento dell’inquinamento da rumore: il fogliame spezza e ammortizza le onde acustiche, attenuandole. Opportune alberature stradali con specie sempreverdi possono mitigare il disturbo da inquinamento acustico sia se provocato da fonti dirette che da onde acustiche riflesse tra le pareti dei palazzi e che si propagano rimbalzando fino ai piani superiori. Ove necessario e con spazi disponibili con gli alberi in più filari è possibile creare vere e proprie barriere fonassorbenti vegetali, magari in aggiunta o in alternativa ai classici pannelli. Con la bellezza di barriere vegetate è infatti possibile anche mascherare e rendere completamente invisibili i pannelli fonoassorbenti classici, lungo strade e ferrovie, ed evitare che in quelli trasparenti vadano a collidere gli uccelli in volo. Lo stesso vale per impedire il proliferare eccessivo dei cartelloni pubblicitari e le scritte imbrattanti sui muraglioni, veri e propri detrattori ambientali, apportatori di confusione di messaggi e bruttezza percepita. Importante a questo scopo è l’impiego delle liane in città, ovvero di rampicanti sempreverdi come, ad es. l’edera, per ottenere bellezza mascherando muraglioni e la riduzione dell’inquinamento acustico.
Bioindicazione delle qualità dell’aria: il metodo più semplice per valutare la qualità dell’aria , puntualmente in un determinato posto, è quello di osservare sui tronchi degli alberi la presenza, l’estensione e l’abbondanza di specie di licheni epifitici (vale a dire che crescono sui tronchi delle piante). I licheni reagiscono al complesso degli inquinanti atmosferici e la loro estrema sensibilità li rende estremamente fragili anche perché la loro vita dipende esclusivamente dalla qualità dell’aria. In presenza di inquinamento atmosferico le specie più sensibili presto scompaiono e le altre, più resistenti, riducono il proprio tasso di crescita e poi col crescere dell’inquinamento riducono le dimensioni del loro tallo. La valutazione grossolana e speditiva – ma significativa della qualità dell’aria in un’area ristrettissima o puntualmente in una strada o in un giardino può essere fatta osservando le diverse macchie di colore e le diverse forme licheniche e contandole, su una superficie fissa, senza ripetizioni. Dove vediamo tronchi incrostati da numerose specie di licheni e presenti in macchie di estensione considerevole, l’aria è di migliore qualità; poche specie e di ridotte dimensioni indicano aria con un po di inquinamento, mentre la presenza una sola specie indica aria inquinata e infine l’assenza completa di licheni, chiamata “deserto lichenico”, indica aria molto inquinata. Anche gli apici vegetativi primaverili delle piante sono indicatori di qualità dell’aria: tanto più sono verdi e sani e tanto più vuol dire che l’aria è poco o nulla affetta da inquinamento. Se consideriamo il costo molto elevato delle centraline automatiche per il monitoraggio chimico della qualità dell’aria (di acquisto, di installazione, di manutenzione e di gestione ordinaria che richiede personale addetto quotidianamente e analisi di laboratorio) che impone uno scarso numero di punti di rilevamento nelle città, risulta subito evidente che l’utilizzo dell’osservazione degli alberi con la propria dotazione spontanea naturale di licheni per gli stessi fini ha un valore anche economico e sociale elevatissimo. Ha anche un valore “democratico”, perché consente a chiunque di poter valutare, grossolanamente ma in maniera attendibile, lo stato di qualità media dell’aria che respira. A Berna da decenni gli alberi di città, per i licheni che ospitano, fanno parte ufficialmente, assieme alle centraline di analisi automatiche, del sistema di controllo e valutazione dell’inquinamento atmosferico urbano. Chiaramente la valutazione dell’inquinamento atmosferico basata sui licheni può essere
effettuata anche in maniera scientifica e specialistica, ma occorre che il metodo standardizzato sia applicato da personale specializzato (o che intende specializzarsi) nel riconoscimento delle specie licheniche.3
Conservazione della biodiversità: Gli alberi ospitano svariate specie di animali, dando loro rifugio, cibo, luogo di nidificazione. Nelle cortecce distaccate si realizzano nicchie che offrono l “la casa” a pipistrelli e riparo a numerose specie d’insetti. Nei tronchi morti_in piedi i picchi prediligono scavare i loro nidi e sui pini vivono coleotteri predatori di insetti e di acari nocivi. Varie, anche se difficilmente visibili, sono le specie di mammiferi (scoiattoli, ricci, ma non solo) che utilizzano gli alberi per rifugio anche scavando tane fra le radici e/o alimentazione, arricchendo così la fauna delle nostre città.
Contrasto all’alienazione: La monotonia, la spersonalizzazione che l’edificato spesso induce tra i cittadini (soprattutto se brutto o banale), può essere contrastata dagli alberi soprattutto se autoctoni. Ci sono ambienti cittadini identici a sé stessi che potrebbero essere in qualsiasi altro posto lontano, a qualsiasi e latitudine; gli alberi possono ridare identità geografica a posti simili: in una pianura planiziale, ad es., la presenza di vegetazione tipica spontanea, vale a dire quella che si sarebbe insediata spontaneamente in quel luogo se non ci fosse stato l’uomo, ha una funzione identitaria, positiva, aiutando il cittadino a conoscere e apprezzare il luogo in cui vive.
Spazi attrezzati per lo sport: le attività sportive, sia semplicemente salutistiche che di livello agonistico, possono trovare negli spazi verdi tal quale o appositamente attrezzati le loro straordinarie palestre naturali all’aperto, di gran lunga più gradevoli e salutari di quelle chiuse tra quattro mura, strutture che comunque restano indispensabili nei periodi di maltempo o quando occorrano attrezzature particolari. Campi da tennis, da pallavolo, da pallacanestro, piscine all’aperto, piste per marciare, soprattutto se facilmente raggiungibili nel breve tempo di 15 minuti a piedi, appartengono al sistema urbano del verde anche se andrebbero conteggiati in maniera distinta rispetto alla dotazione “verde/pro capite” in quanto comunque attrezzature sportive.
Benessere psico-fisico: Il bosco e gli alberi, con la loro bellezza e con i loro profumi, assicurano benessere fisico e psichico all’uomo: il contatto regolare col bosco soprattutto se non alterato dall’uomo, con i parchi urbani alberati e con i camminamenti lungo i filari, aumentano la resistenza alle malattie, accelerano i processi di guarigione, attivano il benessere psicofisico e favoriscono la nascita di nuovi neuroni nei cervelli anziani che riacquistano comportamenti giovanili contrastando diverse patologie degenerative.
Promozione del paesaggio: la presenza degli alberi costituisce una rivoluzione nella bellezza complessiva dei luoghi; anche quelli più scialbi, urbanisticamente non attraenti o addirittura banali, assumono nuova bellezza e divengono attraenti se corredati di una buona dotazione arborea, con presenza equilibrata di sempreverdi e caducifoglie, con aiuole di suolo fertile, con arbusti ed erbe con fiori e colori della natura, in definitiva grazie alla biodiversità. Divengono
3Il metodo per valutare la qualità dell’aria attraverso l’osservazione e la misura della presenza, estensione su una superficie e frequenza dei licheni si chiama IBL (Indice di Biodiversità lichenica), pubblicato dall’ISPRA e scaricabile gratuitamente digitando :
http://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/manuali-e-linee-guida/i-b-l-indice-di-biodiversita lichenica.
interessanti i mutamenti di aspetto e di colori al volgere delle stagioni, i profumi, la presenza di uccelli, la percezione del vento fra le foglie.
Valorizzazione dei Beni storici, artistici, culturali: anche i beni storici, culturali, monumentali, artistici se visti nel loro contesto naturale-ambientale di corredo verde nel quale erano stati concepiti, assumono valore percettivo e maggiore significato e godimento. Un’area archeologica di epoca italica o romana, un tempio greco o una villa del Palladio, non possono essere godute nella loro pienezza se circondati di alberi di Eucaliptus originario dell’Australia e della Tasmania…o da Ailanthus della Cina. Di contro molte delle ville storiche devono la loro bellezza anche alla piantumazione di specie esotiche che nel tempo sono diventate parte integrante di quel paesaggio (si pensi ad esempio agli alberi monumentali presenti in svariate città e non di rado risultato di piantumazioni del passato). In questi casi occorre svolgere una indagine storica –archivistica e fare ricorso a foto d’epoca o a dipinti, ove possibile.
Funzione sociale, aggregativa: Isole di alberi in città, anche piccole, magari corredate di panchine e con prato e giochi per bambini, con un’area recintata di dimensioni adeguate per lo sgambettamento dei cani, divengono attrattive di persone favorendo la socialità, la conoscenza tra persone, la responsabilizzazione verso la custodia e la pulizia degli spazi comuni. Esperienze fatte in grandi città come Parigi, di orti-giardini urbani, hanno mostrato che le aree verdi e orti accuditi direttamente dai cittadini divengono veri e propri centri sociali, luoghi di aggregazione di persone di tutte le età, di riduzione dei conflitti e promuovono solidarietà e maggiore sicurezza. Occorre tuttavia agire con cautela. Per quanto riguarda gli orti urbani, dal momento che i prodotti sono destinati all’alimentazione umana, occorre prestare attenzione al possibile inquinamento del suolo nel luogo d’impianto e alle deposizioni di contaminanti che possono pervenire sulle coltivazioni dall’atmosfera. Per valutare l’idoneità di un suolo alla coltivazione di alimenti, oltre all’ispezione visiva dell’intorno e del luogo specifico per controllarne l’assenza di rifiuti e di colorazioni anormali, si può verificare la presenza di invertebrati (lombrichi, artropodi ) che abbondano in suoli sani (sono indicatori biologici di qualità); in caso di dubbio si può prelevare un campione composito (vale a dire ottenuto mescolando fra loro piccoli sub campioni di terra prelevati in un ideale reticolo) da sottoporre ad analisi in un laboratorio chimico specializzato. Per le deposizioni atmosferiche occorre valutare la presenza di arterie stradali e di altre fonti di inquinamento atmosferico industriale nelle vicinanze che possano interessare gli orti. Si consideri infine anche la possibilità di realizzare giardini chiusi in serra, con strutture che possono essere artistiche, con vetrate di bellezza e frutteti sociali.
Sviluppo della didattica naturalistica e della cultura storico-sociale ed ambientale della città e del suo territorio: è dimostrato come la didattica svolta in parte all’aperto, concretamente legata alla conoscenza del territorio utilizzando l’ambiente come laboratorio naturale, con le sue evidenze e peculiarità , sia estremamente proficua nella formazione del cittadino e delle classi dirigenti e in definitiva per il raggiungimento della sostenibilità e del vivere civile. La didattica svolta nel verde, diffusa in Svizzera e nella Scandinavia e sempre più adottata in varie parti del mondo, ha mostrato vantaggi significativi anche sotto il profilo dell’apprendimento scolastico generale.
Benessere, svago ed educazione per i bambini. E’ questo un tema di grande importanza. Le aree verdi concepite anche a questo scopo devono essere realizzate vicino agli asili, alle scuole materne ed elementari o all’abitato comunque raggiungibili di norma al massimo nel tempo di 15 minuti circa camminando a piedi. Tali aree possono essere corredate da un piccolo stagno
pieno di vita o munite di una mini-fattoria degli animali ove è possibile osservare oche, galline, altri animali domestici da accudire. Questa funzione specifica rivolta ai bambini, può essere svolta più agevolmente nei vivai, allo scopo opportunamente dotati di attrezzature con animali domestici. Sono attrattive anche serre attrezzate come “casa delle farfalle” o anche la creazione di piccoli giardini di specie aromatiche che possono contribuire non solo all’educazione ambientale ma anche alla biodiversità.
Le piante nell’ambiente umano: quali criteri per una progettazione ecologica del verde urbano?
1) La scelta delle specie da impiantare è molto importante. Occorre dare innanzitutto preferenza alle specie appartenenti alla flora spontanea potenziale locale che, tra l’altro, comprende molte entità di particolare bellezza e definibili, in termini forestali, “nobili” e identitarie. La flora locale è anche quella “più conosciuta” dalla fauna locale ed è la più adatta ad ospitarla avendo vissuto lunghissimi tempi di relazioni e di co-evoluzione e di adattamento con vantaggi reciproci. Va applicato il concetto di “restauro ambientale” imitando i criteri adottati nel restauro di un bene culturale che richiede tipicamente la comprensione dell’oggetto, la sua conoscenza di dettaglio e della veduta d’insieme che regoleranno la progettazione delle tecniche risanatorie. Allo stesso modo la progettazione del verde urbano e periurbano non può essere fatto astrattamente “su una tela bianca” ma deve seguire criteri ecologici aderenti alla vocazione naturale spontanea dei luoghi. Adottare criteri diversi comporta non solo la realizzazione di “falsi culturali” (e colturali) ma anche indebolimento dell’intero impianto che, se inadatto, alla fine rischia di essere fortemente danneggiato o eliminato, nel tempo, dalle pressioni selettive della natura o delle attività umane.
2) Oltre all’individuazione delle “specie giuste”, la preferenza va rivolta per quanto possibile alle varietà locali di quelle specie, vale a dire agli ecotipi autoctoni. Si definiscono così le piante indigene, presenti localmente da generazioni, se non da tempi immemorabili, e che hanno caratteristiche genetiche che hanno consentito loro di passare indenni il vaglio spietato della selezione naturale in sede locale. In quanto sopravvissute, esse risultano essere le più adatte, le più vigorose e resistenti alle avversità che possono presentarsi localmente e quindi necessitano di minori cure colturali (meno o nulla fitofarmaci e altri interventi di sostegno). Non basta quindi aver individuato le specie “giuste”, ma occorre rivolgersi anche ai tipi locali di quelle specie. La pratica qui raccomandata non solo è vantaggiosa per il buon esito degli impianti di alberi ma costituisce anche uno dei provvedimenti scientificamente corretti e necessari per la salvaguardia, conservazione e promozione della biodiversità a livello genetico, oggi messa in pericolo dal vivaismo utilitaristico commerciale che non tiene conto dell’adattabilità delle piante ai luoghi in cui verranno insediate e non raccoglie per intero la variabilità genetica esistente all’interno della stessa specie, rischiando di far perdere molte di quelle caratteristiche che permettono l’adattabilità a mutate condizioni ambientali. A titolo di esempio vi sono piante che emettono assieme a semi che germinano normalmente, un certo quantitativo di semi “dormienti” per alcuni anni prima di germogliare e questo garantisce la sopravvivenza della specie in caso di calamità naturali come potenti gelate o attacchi generalizzati di parassiti; nei vivai questi semi non germogliati assieme ai suoi consimili sono considerati sterili, vengono buttati come rifiuto e con ciò si perde una caratteristica genetica acquisita con
l’evoluzione per la sopravvivenza della specie. Si tratta, in definitiva, di salvaguardare e valorizzare la ricchezza dei genotipi presenti nel territorio, anche all’interno delle stesse specie. È accaduto che una potente gelata abbia seccato circa 40 anni fa quasi tutti gli allori dell’Italia centrale-adriatica, mentre quelli “selvatici” presenti persino in montagna o lungo alcuni corsi d’acqua non hanno avuto conseguenze di sorta. Osservandoli nel tempo si è visto che quegli esemplari avevano anche foglie più profumate e, a differenza di quelli di origine vivaistica, anche non attaccati dalle cocciniglie: ecco individuato un ecotipo locale, il cui patrimonio genetico merita di essere conservato attraverso la moltiplicazione di quelle piante e la loro diffusione. Ovviamente il ricorso alle specie locali e agli ecotipi locali di quelle specie non dev’essere un dogma: possono essere impiantate anche specie diverse purchè non infestanti (come ad es. la Ginkgo biloba o il Cedro del Libano o la Magnolia), in ragione della loro bellezza di portamento o di colore del fogliame, o per il profumo o per le spiccate funzioni ecosistemiche che possono fornire (es. perché assorbono inquinanti atmosferici o come barriera contro l’inquinamento da rumore o per i frutti appetiti dall’avifauna). L’importante è che la matrice verde della città sia quella potenziale autoctona largamente preponderante e che le specie alloctone siano l’eccezione consapevole.
3) La scelta delle entità da impiantare deve essere attentamente valutata rispetto alle esigenze della pianta e rispetto al suolo (in particolare natura sabbiosa-silicea o argillosa, calcarea o vulcanica ecc.), al grado di umidità, permeabilità e rispetto alla presenza di manufatti, abitazioni, strade e marciappiedi. Attenzione particolare va posta nel garantire che l’albero abbia il suo spazio vitale una volta cresciuto e non produca fastidi. Tali accortezze eviteranno che la pianta crescendo arrivi ad ostruire il passaggio dei pedoni, rovini il manto stradale e le pavimentazioni con le proprie radici, diano fastidio alle abitazioni così da richiedere potature anche estreme e, alla fine, abbattimenti e sostituzioni.
4) Va assunta la filosofia per cui ogni potatura è da intendersi come una sconfitta: se necessaria vorrà dire che sono stati commessi errori all’origine nella scelta della pianta e nel suo posizionamento il quel luogo. Potature sono possibili ma solo se leggere, di forma oppure rivolte ai rami secchi che potrebbero cadere sotto la spinta del vento o sotto il peso della neve. In ogni caso andranno effettuate da personale esperto, opportunamente addestrato.
5) La scelta delle specie di alberi e arbusti, ma anche di cespugli erbacei, specie rampicanti (liane), terrà conto, altresì, del loro sviluppo, della bellezza e delle conoscenze attuali circa la resistenza specifica delle piante agli stress ambientali e della loro capacità di abbattere inquinanti atmosferici purificando l’aria e l’inquinamento da rumore. A tal proposito va considerato che la pianta svolge queste funzioni tanto più quanto è in buona salute e che questa dipende in gran parte anche dalla naturalità del suo apparato radicale nella profondità del suolo e nel terreno: pertanto nella scelta della specie più idonea, oltre all’attenzione alla parte aerea, (tronco, rami e foglie), va considerata anche quella sotterranea e l’immediato intorno del suolo di pertinenza per il libero ed esteso sviluppo dell’apparato radicale. Indispensabile è quindi anche la preparazione del terreno nel luogo d’impianto, che va fatta in profondità e lasciare terreno libero da asfalto o cemento in cui possano insediarsi fittamente le densissime reti di ife fungine che, in simbiosi con le radici, svolgono la funzione di sollevare l’acqua dagli strati profondi verso l’alto, assicurano il miglior reperimento di nutrienti anche a distanza, rilasciano ormoni della fertilità e vitamine, mentre proteggono l’albero filtrando gli inquinanti (metalli pesanti, radionuclidi , sostanze organo-clorurate) presenti nel suolo
e nell’acqua. Le ife fungine, inoltre, mettono in comunicazione fra loro gli alberi a livello sotterraneo, portando informazioni utili a difendersi dai parassiti o per coordinare la cosiddetta “pasciona”, vale a dire periodiche fruttificazioni abbondanti coordinate e simultanee. Vanno pertanto perseguiti, per quanto possibile, raggruppamenti di alberi o di arbusti delle specie preferibilmente tipiche locali, sia in “corridoi” con impianti sotto forma di filari per connettere fra loro varie aree verdi e sia con l’importante realizzazione di “isole verdi”, vale a dire raggruppamenti di alberi da impiantare ove c’è spazio disponibile preferibilmente con arbusti normalmente ad esse associati (es. a livello litoraneo, Pino con Mirto e con edera rampicante). Lo stare insieme ed essere connesse in relazione fra loro, aiuta la salute delle piante ed è ancora più desiderabile per la riproduzione sessuata delle specie dioiche (vale a dire a sessi separati)mentre porta vantaggi a tutte le biocenosi. Soprattutto per la conservazione della biodiversità andrà privilegiata una mescolanza di specie fra loro compatibili (associazioni vegetali note, sempre dando priorità al modello vegetazionale tipico locale, evitando interventi di forestazione monospecifici e per quanto possibile la coetaneità) e di varie dimensioni: ciò oltre a contribuire a creare un habitat più vario per la fauna consente una maggiore stabilita e resistenza della comunità vegetale (e una maggiore biodiversità vegetale). La varietà di specie può facilitare anche la colonizzazione da parte di organismi del suolo (batteri, funghi, invertebrati), essenziali per mantenere nel tempo i nuovi impianti.
6) Un giusto equilibrio tra piante decidue (caducifoglie) e piante sempreverdi, tra conifere e angiosperme (piante con fiore e frutto) va tenuto in considerazione per finalità estetiche e per i servizi ecosistemici in ambiente urbano. Ad es. per costruire barriere contro il rumore ci si rivolgerà alle sempreverdi e lo stesso vale per i muri con liane per attutire le onde acustiche riflesse.
7) Non secondaria è la scelta di essenze vegetali che profumano l’aria. I panorami vegetali percepiti con la vista sono notoriamente benefici per la salute fisica e psicologica umana. Non adeguatamente considerata, invece, è l’importanza degli odori delle piante, percepiti anche col più potente dei nostri sensi –l’olfatto- sottoforma di profumi di essenze che sono dovuti a molecole volatili che percepiamo anche se presenti in tracce nell’aria-ambiente. È accertato da numerosi studi che i profumi di origine vegetale influenzano in modo profondo il nostro benessere e condizionano marcatamente il “profilo dell’umore”: riducono stati di confusione, tristezza, terrore, senso di colpa, stanchezza, vigore-iperattività. La presenza di formazioni boschive, in aggiunta, stimola la formazione e l’azione delle cellule NK (Natural Killer), così chiamate perché producono proteine anticancro: le persone che trascorrono anche solo due ore in mezzo agli alberi, godendone vista, profumi, meglio ancora se in panorama sonoro naturale in cui possono udire esclusivamente il canto degli uccelli, delle cicale e lo “stormire” del vento nelle fronde, mantengono questa benefica protezione all’incirca per un mese. È accertato, altresì, che la presenza delle piante in luoghi di cura accelera la guarigione dei pazienti, di gran lunga rispetto a quelli che sono degenti in ambienti che ne sono privi. Anche nella formazione psicofisica le piante dànno vantaggi straordinari tanto che in molte nazioni industrializzate si organizzano diffusamente scuole residenziali nei boschi. In Giappone il sistema sanitario utilizza lo shirin – yoku, (letteralmente “bagni di alberi”) per terapie fatte passeggiando per circa almeno 2 km in mezzo ai boschi o nei parchi alberati di cui le metropoli di quel Paese sono dotate. Tale terapia che potremmo definire “arborea” è riconosciuta ufficialmente tra i livelli assistenziali dal sistema sanitario nazionale giapponese. Recentemente, infine, si sta diffondendo l’utilizzo di
specie aromatiche (lavanda, timo, peperoncino, etc.), soprattutto per costituire siepi ornamentali o di delimitazione (ad esempio aree cani).
8) Per la sicurezza dei cittadini, da perseguire evitando cadute di alberi o di rami, sono richieste diagnosi precoci sulla staticità degli alberi, che solo in prima approssimazione va effettuata con ispezione visiva. Per avere certezza sulla pericolosità dell’albero occorrono infatti diagnosi effettuate con adeguati strumenti e da personale esperto e qualificato. Occorre, in ogni caso, vigilare e nei casi critici assicurare un’eventuale adeguata manutenzione, scientificamente corretta e non basata sulle mutilazioni affidate all’opera delle motoseghe ( es. imbracature con tiranti, pali di sostegno, terapie adeguate). Anche i criteri di sicurezza devono essere tenuti presenti fin dal momento della scelta delle specie e delle varietà dell’impianto, dal momento che talune specie sono naturalmente più soggette di altre a patologie, a schianti, ad auto-potatura dei rami operata dalla neve, e alla fine a cadute. Lo stato di salute delle piante ne aumenta la stabilità e staticità. Va comunque detto che un livello di sicurezza assoluto non è mai perseguibile, in questo come in altri campi (es. nei trasporti, nel lavoro e persino in casa) e l’enfatizzazione giornalistica e l’accanimento di qualche persona in caso di caduta di rami o alberi devono essere culturalmente contrastati e ricondotti alla ragione; non si vede mai, infatti, in caso immensamente più frequente, anzi quotidiano, di incidente automobilistico, reclamare l’eliminazione delle automobili dalle città. Questo è ancora più valido nell’era in cui siamo entrati, di eventi eccezionali ricorrenti a breve termine, dovuti ai cambiamenti climatici: tifoni, venti che hanno raggiunto nel 2018 i 200 km/h nel nord-est del nostro Paese.
9) Vanno evitate fermamente specie arboree, arbustive ed erbacee invasive, infestanti, estranee al nostro ambiente come, ad es. l’Ailanto e la canna della pampas (Cortaderia selloana- graminacea che sta infestando la Riserva Naturale Pineta Dannunziana a Pescara), anche per evitare il propagarsi di fitopatologie e parassitosi.
10) Data l’impermeabilizzazione del suolo tipico dell’ambiente urbano, cosiddetta “tecnocrosta” che impedisce all’acqua piovana di infiltrarsi nel suolo e di ricaricare le falde idriche sotterranee, sicuramente in città, ove prevale l’aridità, si rendono indispensabili, in taluni periodi, interventi di irrigazione di soccorso.
11) Aree verdi per il drenaggio delle acque piovane: il deflusso delle precipitazioni piovose urbane non adeguatamente gestito, può inquinare i corsi d’acqua o sovraccaricare il sistema fognario provocando allagamenti e danni ingenti alla città e attivazione di scolmatori di piena che necessariamente inquinano i corpi idrici ricettori . Programmi avanzati (es. Green Streets in corso di realizzazione a Portland, popolosa città negli USA) sono impiegati per il contenimento degli impatti di questo deflusso all’origine, riproducendo alcune condizioni naturali attraverso l’uso di lembi di terra vegetata permeabili. In pratica si fanno diventare ovunque possibile le superfici libere, quelle liberaste ex asfaltate delle strade e dei marciappiedi, spazi verdi lievemente sotto rilevati in cui convogliare diffusamente l’acqua piovana che così viene assorbita dal terreno, filtrando anche le sostanze inquinanti (rain gardens). Le piante rallentano, con il loro fogliame scolante, la caduta dell’acqua sul suolo e aiutano a farla penetrare nel terreno con le radici. L’acqua piovana, anziché essere trattata come una specie di rifiuto da convogliare in un tubo e avviare a uno scarico, diventa così una risorsa che ricarica la falda e rinverdisce l’intero territorio.
12) Attorno alla base dei tronchi deve essere lasciato un adeguato e significativo quantitativo di suolo libero, fertile, sopra cui radunare le foglie cadute e altra necromassa vegetale per pacciamatura, perché possano autocompostarsi e ridare
nutrimento e fertilità alla pianta e al suolo e ove questo non è possibile, almeno adottare nell’intorno pavimentazione drenante, inerbita calpestabile e/o rodabile.
Indicazioni utili sono contenute nelle Linee guida di forestazione urbana sostenibile redatte per Roma Capitale a cura di ISPRA (scaricabili dal sito istituzionale).
Un caso particolare: la vegetazione prossima all’acqua
La vegetazione dei fiumi, torrenti, piccoli corsi d’acqua, laghi, stagni, è assai particolare e specifica quindi richiede, inevitabilmente, criteri e attenzione particolari. La presenza dell’acqua, infatti, è il principale fattore di selezione da tenere presente perché solo talune piante si sono evolute acquisendo la capacità di tenere le radici immerse senza che marciscano. La distribuzione delle piante in presenza di un fiume, torrente o ruscello, varia se ci spostiamo lungo una linea (transetto) trasversale alla direzione del flusso dell’acqua allontanandoci da essa. Dentro l’acqua andranno specie erbacee (idrofite come Apium, il sedano d’acqua), piante immerse a foglie galleggianti (pleustofite) come il Ceratofillo (Ceratophyllum demersum), il Ranuncolo(Ranunculus) la lenticchia d’acqua nelle zone a corrente debole o assente (Lemna minor e Lemna gibba ecc…). Nella zona di transizione tra acqua e terra c’è poi la vegetazione delle elofite, termine con cui vengono chiamate le piante erbacee che hanno le radici e i rizomi infissi nel fango, la parte basale del fusto immersa nell’acqua e il resto della pianta svettante in ambiente aereo come la comune cannuccia d’acqua (Phragmites australis). Questa pianta erbacea (come altre consorelle quali la Tifa detta anche “mazzasorda” e che comunemente si rinviene spontanea con due specie: Typha latifolia e Typha angustifolia) è assai flessibile resistentissima alla trazione, ben ancorata con radici e rizomi (che ossigenano i limi in profondità) e in grado di resistere alle piene. Allontanandoci pochissimo dall’acqua, sulle sponde, si insediano principalmente le Salicaceae, (Pioppi e Salici) prima in forma arbustiva e poi appena dietro a queste, in formazioni arboree che possono raggiungere dimensioni assai ragguardevoli. Spesso di trova l’Ontano nero (Alnus glutinosa) e il Sambuco (Sambucus nigra). Le Salicaceae sono piante a rapido accrescimento, dai rami assai fortemente flessibili ma resistentissimi alla trazione, con radici assai fortemente ancorate nel terreno e capaci di mantenerle ossigenate, caratteristiche che forniscono la capacità di resistere, come avviene per le elofite, alla violenza delle piene che spezzerebbero o estirperebbero qualsiasi altra pianta a legno duro e non flessibile. Il loro legno è molto tenero e leggero. Allontanandosi ancora di più dall’acqua lungo la linea trasversale al flusso delle corrente, troviamo via via alberi con legno più duro: frassini, olmi e poi ancora, più lontano e in condizioni più asciutte sui rilevati dei terrazzi fluviali, carpini , querce e altri diversi alberi a legno duro, non più così flessibile e quindi incline a spezzarsi ma che vivono oramai lontano dai livelli raggiungibili dalle piene, e non sono minacciate da queste.
La vegetazione fluviale è un elemento tipico e caratterizzante del paesaggio. Senza di essa con le sue stupefacenti caratteristiche di adattamento all’essere perennemente in ammollo e a sopravvivere alla violenza delle piene periodiche alle quali nessun altro tipo di vegetazione può resistere, tutti i nostri corsi d’acqua apparirebbero spogli, desertificati come i canali di Marte. Con la sua presenza invece, la vegetazione stabilizza le sponde, frena l’impeto della corrente, mitiga le piene trattenendo l’acqua a monte e consentendone l’infiltrazione nelle falde, con la sua lettiera funge da filtro tra terra e acqua, impedendone l’intorbidamento e la contaminazione da inquinamento diffuso. In pratica nel corso dell’evoluzione naturale, il fiume ha costituito un severo fattore di selezione della vegetazione …e la vegetazione fluviale selezionata così come la conosciamo, ha costituito fattore ecologico che ha condizionato l’ambiente fluviale nelle sue caratteristiche funzionali , estetiche e paesaggistiche. L’ecotono acqua-terra, vale a dire la zona
di transizione fra i due ecosistemi, è la più ricca in assoluto di biodiversità: ospita o dà rifugio a un numero vastissimo di insetti, a oltre la metà degli uccelli italiani, alla totalità degli anfibi e buona parte degli animali selvatici. Alcuni scienziati hanno definito questo nastro come “supermarket of biodiversity”. Va pure tenuto presente che questa vegetazione è essenziale per l’ecologia dell’ambiente acquatico e per il suo potere autodepurativo naturale: fornisce ombra all’ambiente acquatico evitandone, anche con l’evapotraspirazione, il riscaldamento, fornisce apporti trofici alla vita acquatica sottoforma di foglie morte e di necromassa vegetale in genere che cadono nella corrente. Nell’ecologia del paesaggio (Landscape ecology), infine, i corsi d’acqua sono i principali corridoi ecologici esistenti in natura: dentro di essi, accanto ad essi sulle sponde, sopra di essi per gli uccelli migratori, sono vere autostrade della natura ed elementi di orientamento e di riferimento geografico per la fauna. Per questo motivo il corso d’acqua dev’essere vegetato, senza barriere o interruzioni lungo il continuum dell’asta fluviale e accessibile anche trasversalmente, per consentire alla fauna la transizione acqua/terra. La sua vegetazione dev’essere quanto più possibile continua e di adeguato spessore che per i fiumi non dovrebbe essere inferiore a 30 metri.
Nella progettazione del verde in prossimità di un corso d’acqua, pertanto, occorre rivolgersi più che mai alla vegetazione riparia spontanea potenziale del luogo e dispiegare il progetto lungo un transetto trasversale al corso d’acqua, valutando l’allontanamento dalla stessa. Si tratta in definitiva, di compiere un processo di vera e propria rinaturalizzazione, su basi scientifiche, pena clamorosi fallimenti e perdita di funzioni ecologiche essenziali. La vegetazione riparia è compatibile con percorsi ciclo-pedonali o attrezzati per lo sport, purchè prossimi all’acqua ma non immediatamente a ridosso della stessa.
L’importanza dei vivai pubblici
Il vivaio pubblico (regionale, forestale o comunale) è uno strumento strategico decisivo per la gestione ecosistemica del verde urbano secondo i criteri sopra indicati. Infatti nell’attuale panorama del mercato delle piante, è difficile trovare disponibilità di molte specie e degli ecotipi locali “giusti” da impiantare, oltre ad avere i limiti severi della non attenzione alla biodiversità genetica intraspecifica. Per quanto riguarda gli arbusti e le erbacee, inoltre, molte specie sono e resteranno introvabili perchè neppure prese in considerazione per lo scarso o nullo valore commerciale. Ne deriva che per un’adeguata gestione del verde urbano e periurbano molte specie devono essere necessariamente coltivate in proprio, partendo dall’individuazione degli ecotipi locali da riprodurre da seme o per clonazione vegetativa e con criteri scientifici (es. raccolta dei semi composita, diffusa, in condizioni diversificate e mai unicamente da uno stesso albero….). Ai fini della gestione ecosistemica del verde urbano i macro-obiettivi da assegnare a un vivaio possono essere così riassunti:
– Individuare flora spontanea locale e i modelli concettuali vegetazionali spontanei presenti sul territorio;
– Coltivare alberi e arbusti tipici del territorio, a partire da ecotipi locali, per destinarli al verde pubblico e privato (salvaguardia della biodiversità tramite coltivazione ex situ) e per la bellezza e il decoro urbano;
– Individuare di aree da poter rinaturalizzare (compatibilmente con le necessità di fruizione pubblica) e contribuire alla progettarne degli impianti;
– Individuare i corridoi ecologici da salvaguardare, da ripristinare o da realizzare; – Ridiffondere in ogni modo, direttamente o indirettamente, le piantine prodotte;
– Svolgere attività didattica sul verde in città;
– Applicare, d’intesa con il Comune, la Legge 14 gennaio 2013, n. 10, recante “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani” per quanto riguarda l’art. 1 (Svolgimento della festa dell’Albero) e il complesso delle azioni di cui agli artt. 6 e 7).
– Dare applicazione alla legge 29 gennaio 1992, n. 113 cosi’ come modificata dalla precedente legge obbligo per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti di porre a dimora un albero per ogni neonato o minore adottato).
– Realizzare un orto botanico presso il vivaio, con relativo Centro Studi e Documentazione e attività didattica.
I vivai a gestione pubblica o affidati dall’Ente Pubblico a cooperative o Associazioni del Terzo Settore, necessitano di un salto di qualità: divengano in definitiva, veri musei all’aperto, biblioteche viventi, centro-studi e di monitoraggio, sedi di ricerca e centri di educazione ambientale in rapporto con le scuole, Università e Istituti di Ricerca, custodi della biodiversità e promotori della stessa attraverso la ri-diffusione delle specie vulnerabili e rarefatte, rare o in via di estinzione, endemismi. Possono recuperare tradizioni legate all’uso delle specie vegetali (alimentare, per mobili o suppellettili, attrezzi da lavoro, produzione di fibre e di tessuti e da colorare con sistemi naturali ecc). I vivai sono uno strumento operativo fondamentale per la conservazione, per la sostenibilità e per l’elevazione culturale.
Per concludere: alberi e clima globale
Le preoccupazioni del mondo scientifico e di larghi settori della pubblica opinione e dei governi per gli effetti dell’alterazione del clima globale sollecitano azioni immediate ed efficaci per la riduzione della concentrazione dei gas –serra in atmosfera, a partire dall’anidride carbonica che è quello più abbondante. L’umanità è chiamata, con urgenza, a rivedere tutto l’attuale modello energetico basato sui combustibili fossili, con cui abbiamo portato la biosfera sull’orlo del disastro, e avviare una transizione energetica basata sulle fonti rinnovabili non carboniose (e quindi ad abbandonare anche l’impiego massiccio delle biomasse legnose per uso energetico) e rispettose dell’ambiente e del paesaggio. Oltre al vasto tema del risparmio e dell’efficienza energetica, la via della produzione dell’idrogeno “pulito” da fonte solare-fotovoltaica saggiamente pianificata, come vettore energetico, appare quella più promettente. Nel frattempo occorre applicare strategie di adattamento per contenere i danni da alluvioni, tifoni, valanghe, ondate di calore, incendi boschivi, processi di desertificazione, aumento del livello dei mari, scioglimento dei ghiacciai (fenomeno che minaccia l’alimentazione di sorgenti, dei fiumi e degli acquedotti), che oramai vanno verificandosi con frequenze ravvicinate. Tuttavia il contenimento drastico delle emissioni di anidride carbonica da solo non è sufficiente: ad essere alterato è l’intero ciclo del carbonio in quanto l’entità delle emissioni ha superato e continua a superare largamente la possibilità di assorbimento operato dai boschi, dalle foreste e in generale dal complesso degli alberi ed altri vegetali con i propri processi fotosintetici. Ne deriva che occorre incrementare in ogni modo la superficie fotosintetica mondiale. L’umanità ha negli alberi i più formidabili alleati – anzi, gli unici alleati – per contrastare i mutamenti climatici e fissare a terra il carbonio che si trova in eccesso nell’atmosfera, nelle proprie strutture (tronchi, rami, radici, foglie, lettiera), nei loro ecosistemi e in quelli correlati. Nella lettiera di un bosco si fissa da quattro ad otto volte più carbonio di quanto avvenga nel biota legnoso. Gli alberi possono farlo velocemente. Occorre pertanto rispettare il patrimonio arboreo esistente e incrementarlo per quanto possibile, con decisione, con ostinazione, fino al
dettaglio dei pochi metriquadri disponibili anche in città. Il Testo Unico Forestale recentemente approvato, la proliferazione delle centrali elettriche a biomasse (trasformate in necromasse) incentivate dai formidabili contributi statali e i tagli delle alberature operati da moltissimi comuni italiani e dall’ANAS, con rinnovato vigore, sembrano andare in direzione uguale ma… nel verso perfettamente contrario. È compito di coloro che hanno capito, svolgere le pressioni necessarie per orientare le cose nel verso scientificamente giusto per una società capace di futuro. Piantare alberi, piantare, piantare: è la parola d’ordine che dovrebbe essere adottata e praticata ovunque.
1 Healthly Air, a global analysis of the role of urbani trees in addressing particulate matter pollution and extreme heat – AA:VV: Nature Conservacy. Studio finanziato da China Global Coneseration Fund e North America urban programs of nature conservacy), pagg. 1 – 130. (disponibile gratuitamente on line)
2(Chiesura, A. 2010. http://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/rapporti/verso-una-gestione ecosistemica-delle-aree-verdi)
di Giovanni Damiani – pubblicato sul Volume 2 di Simbiosi Magazine (https://www.simbiosimagazine.it/)
La vegetazione spontanea che si insedia lungo le rive dei fiumi, torrenti e ruscelli, viene chiamata “ripariale”. La sua struttura forestale è condizionata principalmente dalla vicinanza all’acqua. La troviamo pertanto anche sulle rive dei laghi, degli stagni e in zone umide o soggette ad allagamento e dove la falda freatica è raggiungibile dalle radici delle piante. La componente arborea è costituita, in Italia, soprattutto dalle Salicaceae, una grande famiglia che include tutti i pioppi e i salici. Essa è una componente fondamentale degli ecosistemi fluviali e ha caratteristiche molto particolari, acquisite nel corso dell’evoluzione naturale in prossimità all’acqua, del flusso della corrente, del regime idrologico e, non ultimo, dal clima.
Parliamo infatti di piante che hanno la capacità di avere il proprio apparato radicale in immersione perenne o per lunghi periodi nell’acqua, senza che le radici marciscano, e per questo vengono chiamate “freatofite”. Questa è una caratteristica importante, perché la falda freatica in prossimità di un corso d’acqua o di un lago è quasi sempre affiorante o giacente a poche decine di centimetri di profondità. Gli ambienti di acque correnti poi sono soggetti a scariche di piene e a esondazioni, con energie fortissime che tendono a trascinare via ogni cosa. Vicino a essi nessuna specie arborea a legname duro e rigido e che non abbia un solido ancoraggio nel terreno potrebbe sopravvivere e prosperare: a ogni piena le piante verrebbero spezzate ed eliminate fin dalla giovane età.
L’energia cinetica delle acque nel corso dell’evoluzione ha quindi avvantaggiato il tipo di vegetazione particolare adatta a vivere in un ambiente tanto ostile grazie alla flessibilità estrema dei rami e dei giovani tronchi, alla loro resistenza eccezionale alla trazione (vale a dire allo strappo), con solido ancoraggio a terra garantito da apparati radicali assai sviluppati, con diverse ed efficienti modalità di riproduzione e ad accrescimento rapidissimo adatto a fronteggiare i diversi regimi stagionali delle acque.
Salici e pioppi si riproducono infatti facilmente per polloni e per talea (riproduzione agamica, che praticamente è una clonazione). Attecchiscono con questa modalità anche in luoghi lontani da quello d’origine, perché un tronco sradicato da una piena o dal vento o un ramo verde spezzato e caduto in acqua può dare vita a un nuovo albero anche a molti chilometri di distanza dove sarà stato portato e depositato dalla corrente, in genere presso un’ansa.
Anche la riproduzione sessuata è molto particolare rispetto ad altre essenze forestali. I semi dei pioppi e dei salici, infatti, sono assai minuscoli e leggerissimi. Il frutto è una capsula che contiene semi a forma di bastoncino, in genere in numero di 8 – 10, esili, lunghi uno o due millimetri, privi di albume e quindi praticamente pressoché privi sostanze nutritive di riserva a differenza, ad esempio, dei frutti dei faggi (fagìole) o delle ghiande delle querce. Essi sono in grado di germinare immediatamente dopo essere stati emessi ma possono restare vitali, in quiescenza, per un periodo limitato, in genere solo di qualche mese, trascorsi i quali muoiono. I piccolissimi embrioni possono germinare poi solo in condizioni di suoli con elevata umidità. I generi Salix e Populu sono dotati tuttavia di semi non molto longevi.
Le Salicacee sono soggette, in generale, a facile ibridazione. Non è un limite al successo della loro riproduzione sessuale…anzi. Queste piante infatti impiegano la propria energia vitale per produrre una straordinaria quantità di semi, come possiamo vedere comunemente nei pioppi. Questi sono piante a sessi separati e gli esemplari femminili producono i propri embrioni leggerissimi, circondati da un arillo cotonoso espanso (comunemente chiamati “pappi”), in quantità straordinarie; questi si disperdono “veleggiando” nell’aria e possono essere trasportati dal vento a distanze incredibili; tuttavia per queste piante la modalità di propagazione aerea non è la sola a disposizione, perché ve ne è un’altra che potremmo definire di “microfluitazione” o di “drift”. Parliamo dei pappi depositatisi sull’acqua dei fiumi, galleggiando sulla superficie, che vengono trasportati a valle e in buona parte terminano il loro viaggio col posarsi su qualche parte del greto ove i semi possono germinare. Stocasticamente con questa strategia saranno molti i semi “fortunati” che troveranno condizioni idonee di sviluppo, iniziando ad emettere immediatamente una radichetta embrionale che diviene poi un fittone che si accresce in pochi giorni. Così, quando nel nostro clima mediterraneo arrivano le piogge e le piene autunnali-invernali, le plantule che hanno germinato per prima, flessibilissime, e che hanno già acquisito un ancoraggio radicale di 30 – 40 cm o più, piegandosi nella corrente divenuta forte minimizzano la propria esposizione all’acqua, riuscendo a non essere estirpate.
Tutta la struttura dell’albero sembra adattata allo scopo di una grande produzione di semi e a un accrescimento veloce. Il polline ad esempio è molto piccolo (25-30 millesimi di millimetro) ma molto abbondante e l’impollinazione può essere sia anemofila che entomofila. Osserviamo la foglia di un pioppo: ha un picciolo ben allungato, schiacciato lateralmente, con elasticità “giusta” perché possa oscillare su un piano sub-orizzontale al minimo spirare del vento. L’albero così può permettersi di avere tante foglie a lamine larghe che, come ogni altro albero, sono disposte per captare quanta più luce ma, nel nostro caso, c’è un vantaggio in più dovuto alla facilità e al “tipo” di movimento che fanno sì che molta luce solare possa filtrare anche negli strati di fogliame inferiori che viceversa rimarrebbero in semi-ombra. Questa particolarità fornisce all’albero maggiore capacità fotosintetica, un “motore biologico turbo” che è alla base della notevole velocità di accrescimento. Vista da lontano la massa delle foglie di un pioppo che oscillano al vento richiama alla mente il brulichio di una folla umana in un mercato o una festa padronale di paese: viene attribuito a questa similitudine il termine del genere , “Populus” (popolo). La flessibilità dei rami dei salici è tale che viene sfruttata fin dall’antichità per realizzare, intrecciati finemente, cesti assai leggeri e resistenti, nasse per la pesca fluviale e, in passato, persino per ponti per l’attraversamento dei corsi d’acqua, chiamati “ponti di fascine”.
In definitiva queste piante assommano in sé una molteplicità di strategie di riproduzione, di crescita e di adattamento che ne determina il successo evolutivo. Se è vero che la presenza del fiume con i suoi episodi di violenza ha determinato la selezione delle caratteristiche uniche di questa vegetazione, è altrettanto vero che essa ha determinato l’aspetto fisico e morfologico dell’ambiente fluviale e del paesaggio. Se non ci fosse questa vegetazione (unitamente a quella erbacea come Fragmites, Tipha, Carex, Scirpus che hanno le medesime caratteristiche di ancoraggio radicale, flessibilità e di resistenza allo strappo), i nostri corsi d’acqua apparirebbero come desolati canali con le ripe franose simili ai canyon del Rio Grande: la violenza delle acque avrebbe eroso, scavato e desertificato tutto l’immediato intorno.
La vegetazione riparia svolge diverse funzioni essenziali negli ecosistemi acquatici. Innanzitutto è un efficace filtro -tampone protettivo della qualità dell’acqua. La lettiera riparia è assai spessa, soffice e umificata, in grado di bloccare quasi tutto quello che le acque meteoriche, ruscellando superficialmente, erodono dai terreni circostanti, inclusi gli inquinanti diffusi che vengono trappolati, degradati o, per gli inquinanti persistenti come i metalli pesanti, resi non biodisponibili. Il pabulum microbico della lettiera e dell’humus riesce a scomporre in tempi bevi anche sostanze organiche xenobiotiche normalmente resistenti alla biodegradazione. Un fiume che ha la sua vegetazione integra, inoltre, presenta generalmente acque limpide perché è ridotta o completamente bloccata l’erosione meteorica superficiale dei terreni circostanti. .
Inoltre le foglie che in autunno cadono in acqua hanno un ruolo ecologico importantissimo per la vita fluviale: quelle dei pioppi e dei salici sono particolari: presto si rigonfiano divenendo più tenere, poi divengono color marrone perché colonizzate al loro interno da microfunghi che le arricchiscono di elementi nutritivi, e infine costituiscono una dieta ottimale per l’intera copiosa comunità degli organismi invertebrati acquatici detritivori che sono a loro volta alla base, ad esempio, dell’alimentazione dei pesci, del merlo acquaiolo, dell’avifauna limicola e degli anfibi. Gran parte degli apporti trofici negli ecosistemi fluviali deriva dalla vegetazione di sponda, piuttosto che dagli organismi fotosintetici che vivono immersi nella corrente.
Le funzioni importantissime della vegetazione riparia nell’ecologia fluviale sono ancora tante. Ne fornisco un rapido accenno. Essa fornisce ombreggiamento limitando, nei tratti di alveo fotosintetici, l’eccesso di proliferazione algale e l’abbagliamento delle specie animali che non amano la luce diretta come molti invertebrati e le trote (che sono sprovviste di palpebre) e che predano gli invertebrati. Protegge inoltre l’acqua dal riscaldamento, sia con la propria ombra e sia per l’evapotraspirazione che è piuttosto elevata; bisogna richiamare il fenomeno fisico per cui il cambiamento di stato dell’acqua da liquida a vapore avviene a spese dell’energia sottratta all’ambiente esterno, cosicchè l’evapotraspirazione funziona come un condizionatore che riduce la temperatura ambientale. Le basse temperature favoriscono un adeguato tenore di ossigeno disciolto a tutto vantaggio per la vita acquatica. La vegetazione dei corsi d’acqua realizza microhabitat per una moltitudine di organismi e favorisce un’elevatissima biodiversità entro l’acqua e sulle sponde; le radici flottanti degli alberi sono microhabitat per molte specie e zone di rifugio per i pesci. È una vegetazione che consolida e stabilizza le sponde, contrastandone l’erosione e il franamento che causano l’interrimento accelerato di zone fluviali di pianura. Con la sua “rugosità”, unitamente alla vegetazione erbacea e ai salici arbustivi, frena l’impeto della corrente, trattiene più a lungo l’acqua sul territorio mitigando le piene, aumentando i “i tempi di corrivazione” e in definitiva svolgendo un’imponente azione di regimazione che contrasta il rischio idrogeologico. Il permanere dell’acqua rallentata sul territorio inoltre ne favorisce l’infiltrazione laterale e la diffusione all’interno i ghiaioni permeabili delle sponde e quindi la ricarica delle falde.
La vegetazione riparia intrappola i nutrienti il cui eccesso è assai nocivo per le acque e, per quanto riguarda quelli azotati, attraverso le reazioni nitro-denitro li scompone fino al livello di azoto elementare che viene restituito all’atmosfera. Favorisce inoltre la transizione acqua – terra di specie animali: insetti come le libellule, le effimere, svariate famiglie di ditteri, ma anche vertebrati come tutti gli anfibi, molti rettili… Lo svolgersi del ciclo della materia, tanto più efficace quando maggiore è la biodiversità nell’ecosistema, aumenta l’efficienza dell’autodepurazione biologica tipica delle acque correnti e la cui “funzionalità” è oggi alla base delle finalità della normativa introdotta dalla Direttiva Quadro sulle Acqua (Framework Water Directive 60/2000/CE e della normativa italiana D.Lsl 152/2006 e s.m.i.).
La fascia ecotonale acqua-terra perennemente umida o di acque bassissime o a inondazione periodica, ricca anche di vegetazione erbacea che ha le radici o i rizomi immersi nell’acqua e la parte restante aerea, come la cannuccia d’acqua, le tife e i carici (chiamata “elofitica”) è quella a più alta efficienza autodepurativa. Questi ambienti infatti vengono oggi “copiati” e riprodotti artificialmente, come veri e propri impianti di depurazione degli scarichi fognari che in Italia sono noti come “fitodepuratori”, raccomandati peraltro dalla normativa per le caratteristiche di basso impatto ambientale e alta efficienza, economicità di gestione e perfetto inserimento nel paesaggio in cui risultano non percepiti alla vista.
Le fasce ripariali costituiscono i principali habitat di rifugio per la fauna e sono “corridoi ecologici” naturali del territorio per i mammiferi lungo le sponde, per l’avifauna migratrice che memorizza, per orientarsi, le linee dei corsi d’acqua come riferimenti geografici, mentre all’interno delle acque il corridoio fluviale consente le migrazioni interne dei pesci.
Alcuni ricercatori che studiano gli ambienti fluviali e le zone umide (wetlands) hanno definito questi ambienti “supermarkets of biodiversity”: ambienti ricchissimi di specie. Essi, per gli aspetti della biodiversità, sono la nostra “Amazzonia”. Quanto conta la vegetazione riparia sulla buona dotazione di biodiversità, sulla stabilità ecosistemica, sulla resilienza e sulla “funzionalità”, aspetti che garantiscono insieme anche benefici ecosistemici, è cosa che sfugge alla normale comprensione. Cito un esempio illuminante. In Abruzzo fiumi di acque sorgive oligominerali, purissime, come il Vera (Paganica-L’Aquila), il Tirino superiore (Bussi e Capestrano- Pescara) hanno livelli naturalità elevati e di biodiversità straordinari, con presenza di specie rare, come plecotteri, estinti altrove per la loro sensibilità ai disturbi ambientali, ed endemismi. A pochi chilometri nello stesso areale il fiume Giardino (la cui portata è ridotta a causa di captazione della sorgente ad uso acquedottistico), con acque oligomineali e perenni, è privo della quasi totalità delle specie rispetto ai predetti fiumi.
La differenza sta nel fatto che il Vera e il Tirino superiore hanno ripe vegetate ed alveo naturali, mentre il Giardino ha sponde prive di qualsiasi vegetazione arborea e sponde ed alveo sistemati con il cemento. Quanti danni fanno le sistemazioni degli alvei e delle sponde con il cemento e con le gabbionate, le cosiddette “regolarizzazioni” di corsi d’acqua, i tagli indiscriminati della vegetazione riparia, che ancora oggi vengono effettuate, per giunta con denaro pubblico!
Mentre scrivo un albericidio è in atto nel Parco Naturale Regionale Sirente-Velino, in provincia dell’Aquila, e stragi simili mi vengono segnalate in Romagna e in altre parti d’Italia. Alla base di queste azioni riprovevoli c’è la frammentazione delle competenze, l’interesse a lucrare sul legname, spesso l’ignoranza spinta di funzionari pubblici che rivestono ruoli-chiave nei processi amministrativi, l’assenza di controlli, autorizzazioni date con leggerezza stravagante, errate convinzioni idrauliche (velocizzare le acque perché non esondino localmente, ma aggravando il rischio idraulico a valle), incapacità di cogliere lo spirito e il dettato della Direttiva Quadro Europea delle acque, che ha come obiettivo il ripristino di flora e fauna a un buon livello di integrità ecologica e idromorfologica per garantire il potere autodepurativo degli ambienti acquatici.
La normativa vigente imporrebbe l’esatto contrario di quanto è in atto: la riqualificazione ecologica dei corsi d’acqua, e la restituzione ai fiumi del proprio spazio vitale. Ma questa è materia per un altro articolo. Ovviamente lungo i nostri corsi d’acqua non troviamo solo Salicaceae: importante è la presenza, ad esempio, dell’Ontano nero (Alnus glutinosa), del Sambuco (Sambucus nigra) e diverse altre specie tra cui poco noto è probabilmente l’Oleandro (Nerium oleander) che in fiumi della Sardegna dà luogo a fioriture spettacolari. Man mano che ci allontaniamo dall’acqua troviamo alberi a legname sempre più duro, passando per i frassini (Fraxinus excelsior e F. oxycarpa), olmi (Ulmus minor) ma anche aceri campestri, fino ad arrivare, nelle zone oramai abbastanza asciutte, alle querce, ai faggi e altre specie di habitat completamente diverso.
Che fare per la riqualificazione dei fiumi e il restauro del paesaggio? Tra le tante cose basterebbe solo un provvedimento di effettiva tutela delle sponde per una fascia spessa circa 150 metri, o per quanto possibile, per vedere rinascere o comunque migliorare di molto la qualità dei nostri fiumi e il paesaggio senza spendere un solo euro. La vegetazione riparia infatti è talmente rapida nel ri-colonizzare spontaneamente i suoi spazi e ad accrescersi che in pochissimi anni con la sola tutela avremmo già risultati sorprendenti.
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