Il governo a ceduo ha diverse criticità: 1. dopo il taglio, la perdita di suolo e nutrienti per erosione in special modo quando localizzato in zone di pendenza, 2. la perdita di nutrienti con l’asportazione della massa legnosa tagliata. Tutto questo avviene ciclicamente in modo molto ravvicinato ogni 15-20 anni (turni dei cedui) e è particolarmente impattante nei cedui matricinati, di fatto dei tagli rasi con rilascio di qualche pianta, che lascia il terreno scoperto all’azione battente delle piogge. Piogge sempre più violente (nubifragi) a causa dei cambiamenti climatici in atto, con evidente aumento dei rischi erosivi se non addirittura l’innesco di movimenti di massa (frane). Non essendo praticato nessun intervento di reintegro dei nutrienti, neanche nelle situazioni pedoclimatiche più fragili, la perdita di fertilità nel tempo è una costante. Una tale situazione è in contraddizione con quanto ora si auspica in merito all’impiego delle foreste come accumulatori di CO2 atmosferica e conservazione della biodiversità.
Nella letteratura nazionale pochi, per non dire nessuno (probabile che mi siano sfuggiti), hanno trattato l’argomento delle asportazioni di nutrienti nel corso delle utilizzazioni, in genere e ancor meno in particolare per il ceduo. L’articolo di André e Ponette (2003), in allegato, tratta l’argomento in questione. In mancanza di una indagine simile su popolamenti forestali nazionali, i risultati del lavoro dei due autori può servire come orientamento generale degli effetti del fenomeno.
Nella tabella che segue sono riassunti alcuni risultati ottenuti da André e Ponette (2003). Si tratta di un ceduo sotto fustaia (fustaia di Quercus petreae, ceduo di Carpinus betulus) dove è stata stimata la concentrazione di alcuni nutrienti nella biomassa epigea, tenendo distinte le varie parti delle piante. Sono riportate le concentrazioni di azoto (N) e fosforo (P). Si rimanda alla pubblicazione per gli approfondimenti.
Le piante di rovere compongono il piano dominante a fustaia, hanno notevoli dimensioni e la loro età è stimata in 100-120 anni. Le 154,4 tonnellate di sostanza secca (t) epigea delle piante di rovere ad ettaro contengono kg 379,8 e kg 28,7 rispettivamente di N e P, le quantità che verrebbero asportate se tutta la massa fosse rimossa. Se invece fossero asportati solo i tronchi scortecciati verrebbe asportato solo il 26% di N (kg 99,2) e il 15% di P (kg 4,4) corrispondenti al 50,7 % (t 78,2) della massa epigea, quella di maggior valore mercantile. Questo è dovuto al fatto che il durame ha una concentrazione bassissima di N e P. In ognuna delle 60 t di durame ci sono mediamente kg 0,97 di N e 0,01 di P. Nell’alburno mediamente sono maggiori (kg 2,26 N e kg 0,22 P) e ancora di più nella corteccia (kg 5,68 N e kg 0,48 P). Sappiamo che maggiori sono i diametri maggiore sarà la percentuale di durame in quanto legata all’età della pianta. Inoltre fino a certi diametri piante anche di notevoli dimensioni possono essere scortecciate direttamente al momento del taglio con mezzi meccanici (bracci idraulici muniti di cesoie che tagliano, sramano, scortecciano e depezzano) oppure manualmente, lasciando sul letto di caduta le parti eliminate asportando solo il durame e l’alburno.
È improbabile che la legna da ardere venga scortecciata e impossibile il legno cippato. Ma è proprio la massa legnosa di minor diametro quella che ha la maggior concentrazione di N e P. I rami di rovere su una biomassa di t 69,0 che insieme alle t 7,1 della corteccia corrispondono a poco meno del 50% della totale epigea, contengono kg 280,3 di N e kg 24,3 di P, quasi 3 volte in più di N e 6 volte di P dei tronchi del fusto scortecciato. Se riportiamo il dato ad 1 t, vediamo che in 1 t di rami più corteccia vi sono kg 3,7 di N e kg 0,31 di P. Ipoteticamente, visto che stiamo parlando di materiale legnoso ottenibile con turni molto lunghi (le piante hanno mediamente 100-120 anni), possiamo ipotizzare che nel corso di un secolo l’azotofissazione dei batteri possa compensare la perdita di N (tutto da dimostrare). A questa possiamo supporre che vi possa essere anche un apporto con le piogge e, in particolari situazioni edafiche e di giacitura, da falda superficiale (2-3 metri), da esondazioni, da polveri del deserto. Per il P è molto più difficile in quanto non esiste la fissazione batterica né pioggia, possono sussistere le altre 3 possibilità ma solo in situazioni ancora più ipotetiche che per l’N.
Se consideriamo il caso del ceduo, la situazione si fa ancora più difficile. La biomassa epigea di carpino corrisponde a circa t 37 e contiene kg 118,3 di N e circa kg 10 di P, dovuto alle ridotte dimensioni del materiale condizionato dalla giovane età. Se riportiamo il dato a t, in 1 t abbiamo mediamente kg 3,20 di N e kg 0,27 di P, il tutto per ottenere un assortimento di scarso valore mercantile. L’asportazione in questo caso (in Belgio) avviene a cicli di 25-30 anni. La quantità asportata, in 100-120 anni come nel caso della rovere, va moltiplicata almeno per quattro. I tempi di reintegro dei nutrienti per via “naturale” si riducono e la quantità asportata aumenta. Nel caso di un ceduo inoltre, ma anche in quello di una fustaia sottoposta a taglio raso, se posta in pendice, (come capita in Italia frequentemente) dobbiamo considerare la perdita di suolo, di N e P per erosione che avverrà fino a quando non si sarà ricostituito un manto arboreo. L’erosione nel caso di un ceduo è maggiore in quanto avviene a cadenze più ravvicinate di una fustaia specialmente nei casi in cui i turni sono più brevi (15-20 anni). Inoltre in caso di cedui su pendice l’ipotesi che si possano avere apporti di N e P per esondazione è nulla, per falda superficiale molto improbabile, specialmente in certi contesti geologici (vedi terreni derivati da calcare fessurato).
In particolare per il P l’adozione di sistemi selvicolturali che riducano al minimo la sua asportazione sarebbe auspicabile, visto che tradizionalmente non sono previste concimazioni se non qualche volta al momento della piantagione. In questa ottica conservativa appare manifesto che il ceduo, in particolare quello matricinato, è una pratica che dovrebbe essere superata e sostituita dalla fustaia, come dovrebbe essere superato il taglio raso. Inoltre, sempre nella stessa ottica, l’asportazione dovrebbe essere solo di piante in cui sia elevata la presenza di durame e che siano scortecciabili sul letto di caduta. È evidente che queste indicazioni di massima dovrebbero essere contestualizzate in base alle condizioni edafiche e di giacitura ma dovrebbero essere la linea generale.
Abbiamo bisogno di legno (legname da opera) per manufatti duraturi che conservino la CO2 nel tempo, non per bruciarlo. Se proprio non si può fare a meno di legno da bruciare, almeno usiamo i residui a cascata di quello di scarto prodotto della lavorazione di quello da opera. Per produrre energia termica ed ancora di più elettrica abbiamo molte alternative alla biomassa.
André F., PonetteQ. 2003 Comparison of biomass and nutrient content between oak (Quercus petraea) and hornbeam (Carpinus betulus) trees in a coppice-with-standards stand in Chimay (Belgium) UniversitéAnn. For. Sci. 60 (2003) 489–502 489 © INRA, EDP Sciences, 2003 DOI: 10.1051/forest:2003042
Molto interessante, ma alcune volte occorre bruciare alcuni legnami e semi, ad esempio per eliminare definitivamente l’Ailanto che sta invadendo i nostri aerali, pubblici e privati. A questo punto sarebbe meglio ridurli a biochart e immagazzinare l’energia trasformata dalla combustione in difetto di ossigeno.