Gli orsi marsicani hanno bisogno di più foreste evolute

Gli orsi marsicani hanno bisogno di più foreste evolute

L’uccisione dell’orsa Amarena deve imporre una riflessione sulla gestione degli orsi marsicani e su come tenerli lontani dai paesi, in particolare su come far trovare loro cibo a sufficienza nelle aree non occupate dall’uomo. Un elemento troppo spesso trascurato in questo senso è la qualità e il grado di complessità dei boschi che sono territorio dell’orso, la loro importanza nel fornire fonti alimentari a questa specie, e l’impatto che hanno i tagli boschivi nel compromettere la capacità delle foreste di produrre cibo per gli orsi.

L’orso è un animale onnivoro e una parte rilevante della sua alimentazione è costituita da ghiande (prodotte dalle querce) e di faggiole (il frutto del faggio): sono stati trovati escrementi di orso composti unicamente da ghiande e faggiole. Ma non tutti gli alberi producono ghiande e faggiole allo stesso modo. Esattamente come un bambino ha bisogno di crescere prima di entrare nell’età riproduttiva, anche le piante non fruttificano durante i primi anni di vita.

Un faggio comincia a fruttificare non prima dei 20-30 anni di età, mentre le querce cominciano a fruttificare a 30-40 (le farnie un po’ prima delle altre specie). Un albero troppo giovane, quindi, non produce frutti, e non fornisce cibo agli animali selvatici. Molti boschi sono in questa situazione, in particolare quelli nati dall’espansione del bosco in zone prima coltivate.

Ci sono poi i boschi governati a ceduo, dove le piante vengono tagliate alla base per fare legna, e ricrescono con giovani rami chiamati polloni. Questa forma di governo del bosco, dannosa perché lascia il suolo forestale quasi completamente scoperto, è molto diffusa in Italia e purtroppo viene utilizzata anche all’interno dei parchi nazionali.

Le piante ceduate devono ricrescere da capo dopo ogni taglio, ricostituendo la parte aerea. L’albero quindi spende moltissime energie per sopravvivere al taglio, e non fruttifica per qualche anno, o lo fa ma producendo pochissimi frutti. Una pianta ricresciuta dopo un taglio ceduo è un pianta piccola, e dopo turni molto brevi (di solito 20 anni, ma a volte anche meno) viene tagliata di nuovo. Questi alberi, condannati a non poter mai raggiungere dimensioni dignitose, hanno una produzione di frutti misera e assolutamente imparagonabile a una pianta secolare.

Altro effetto delle continue ceduazioni è il taglio del sottobosco, che fornisce cibo agli animali selvatici sotto forma di frutti di bosco, insetti e micromammiferi. Il sottobosco viene eliminato per consentire il passaggio dei macchinari per il taglio boschivo.

È quindi importante, nel considerare l’areale dell’orso, non concentrarsi solo sulla sua estensione, ma anche sulla qualità e complessità dei boschi compresi nel territorio della specie. Boschi più evoluti hanno una capacità portante per la specie molto superiore a boschi giovani o ceduati, che sono ecosistemi immaturi dove non ci sono catene alimentari stabili e articolate. Gli orsi marsicani hanno bisogno di un numero rilevante di aree boschive lasciate all’evoluzione naturale, con boschi indisturbati da tagli, e ricchi di cibo per loro e altre specie animali, se vogliamo tenerli lontani dai centri abitati per favorire la convivenza e salvare la specie.

Nei boschi sottoposti invece a gestione, bisogna abbandonare il governo a ceduo e puntare su quello ad alto fusto, più rispettoso delle dinamiche naturali. Si possono fare tagli oculati e limitati, senza aprire o destrutturare troppo la foresta, praticando una selvicoltura più ecosostenibile e meno impattante, che lasci un numero adeguato di piante mature che possono fruttificare e nutrire la fauna.

Anche le pinete artificiali, di cui si invoca così spesso il diradamento, possono fornire cibo agli orsi marsicani. A causa della grande quantità di legno morto al loro interno sono ricche di insetti e micromammiferi: tutti cibi apprezzati dagli orsi.

Tutto questo non esclude altri possibili interventi per l’alimentazione degli orsi, come una possibile ripresa della pasturazione in aree isolate. Ma un discorso sulle fonti alimentari degli orsi non può prescindere da una discussione sullo stato delle foreste.

È utile in questo senso anche la conservazione degli esemplari di alberi da frutto rimasti nei terreni non più coltivati. Questi alberi camporili possono essere di varie specie e trovarsi in condizioni diverse: in pieno campo, ai margini meno coltivabili o sui confini, come accade nei pascoli e seminativi arborati o cespugliati, per le querce camporili, o per gli alberi maritati alle viti (aceri e olmi campestri, ma anche gelsi e più raramente meli e altre specie di alberi). Sono piante robuste, longeve e rustiche, selezionate dalla natura, che possono costituire una risorsa trofica per la fauna.

Le foreste possono anche essere arricchite di fonti alimentari per l’orso con la messa a dimora di alberi da frutti come meli e peri selvatici. Queste piante sono perfette ai margini di boschi e praterie, o dove c’è una gestione orientata alla conservazione di pascoli, creando pascoli arborati, o garrighe, e andando a creare corridoi ecologici ricchi di fonti alimentari.

Le garrighe, aree aperte e aride dove il bosco non arriva, e i pascoli arborati possono essere di particolare interesse a questo scopo. La messa a dimora di alcuni alberi da frutto in questi contesti permetterebbe anche di ricreare alcuni elementi tradizionali del paesaggio, con interventi che aumentino la diversità a mosaico degli habitat secondari. I pascoli arborati, per esempio, consentono un uso sinergico del territorio. Questi luoghi possono agire come zone buffer per tenere lontani i selvatici dalle attività agricole e dai paesi. Alberi e arbusti di questo tipo possono essere una risorsa d’emergenza per le specie più minacciate, specialmente negli anni non di pasciona.

Altra azione importante può essere il restauro dei ramneti in alta quota, dove sono primari.

Ogni specie vivente, compresa quella umana, è legata a doppio filo al proprio ambiente naturale. Le azioni per salvare le specie a rischio estinzione devono quindi avere come punto di partenza la conservazione del suo habitat. Se vogliamo salvare gli orsi marsicani, dobbiamo avere più cura delle loro foreste.

IL CONSIGLIO REGIONALE DEVE APPROVARE LA LEGGE A TUTELA DEI BOSCHI TOSCANI

IL CONSIGLIO REGIONALE DEVE APPROVARE LA LEGGE A TUTELA DEI BOSCHI TOSCANI

Firenze, 14 giugno 2022 – Le associazioni firmatarie chiedono al Consiglio Regionale della Toscana di approvare la proposta di legge sui tagli boschivi in discussione giovedì mattina.

La proposta di legge, presentata dalla Consigliera Silvia Noferi, è mirata a impedire che i boschi pubblici, anche all’interno di aree protette, vengano trattati alla stregua di deposito di legname con il quale far cassa, con tagli frequenti e gravemente impattanti sull’ecosistema forestale.

Tende poi a dare più responsabilità al Consiglio Regionale e meno alla Giunta, l’organo che attualmente decide, senza un adeguato confronto politico, le scelte sostanziali in materia di gestione forestale. Introduce inoltre la presenza del tecnico forestale sia in fase di asseverazione che di collaudo: la presenza di un professionista nelle procedure amministrative per il taglio dei boschi, infatti, costituisce un elemento di maggiore garanzia per gli organi di controllo, quali i Carabinieri Forestali.

La proposta di legge pone inoltre un argine alla pratica del taglio a raso del ceduo, sposando le recenti direttive operative del Comando dei Carabinieri Forestali, secondo le quali i boschi cedui invecchiati devono essere considerati fustaie e quindi sottoposti a maggiori limiti relativi ai tagli boschivi.

Il taglio a ceduo è un metodo di governo del bosco molto utilizzato in Toscana che denuda il suolo forestale, e prevede il taglio di tutti gli alberi a eccezione di poche piante, giovani ed esili (dette matricine). Ciò che rimane è molto difficile da definire foresta: privata della copertura arborea, l’area diventa spoglia e il terreno è sottoposto a erosione e perde nutrienti. Sia gli alberi che il suolo forestale sono tra i migliori sequestratori di CO2, e in un momento in cui si moltiplicano le iniziative di riforestazione per contrastare il riscaldamento climatico, il Consiglio Regionale dovrebbe pensare innanzitutto a proteggere le foreste già esistenti dal sovrasfruttamento.

Le associazioni ricordano inoltre che il legname prodotto tramite il governo a ceduo è legname di bassa qualità, che in gran parte finisce per diventare cippato per le centrali a biomasse forestali, a cui l’Unione Europea sta considerando di togliere gli incentivi, prendendo finalmente atto dell’insostenibilità di bruciare le nostre foreste per produrre energia. Le biomasse forestali sono inoltre pericolose per la salute dei cittadini, in quanto la combustione di legno produce alte quantità di particolato e altre sostanze inquinanti, mentre è ormai assodato che gli ambienti forestali, lasciati il più possibile alla loro evoluzione naturale,

rappresentano una fonte insostituibile di benessere e di salute.

L’attuale politica forestale della Regione Toscana è quindi insostenibile, climalterante e profondamente dannosa per la biodiversità, e andrebbe rivista nel senso indicato dalla proposta di legge, tutelando dai tagli almeno le riserve naturali, imponendo maggiori controlli e privilegiando la fustaia al posto del ceduo.

La fustaia non solo garantisce un minore impatto sull’ecosistema forestale ma consente anche, qualora si tagli, di produrre legname di qualità per scopi nobili quali la falegnameria e la bioedilizia, che lasciano intrappolato il carbonio assorbito dall’albero e non lo disperdono nell’atmosfera.

Come segnalano le associazioni di settore, questo tipo di legname per usi nobili manca in Italia e viene importato, perché i boschi a ceduo non sono in grado di fornirlo. Se i turni di taglio fossero meno ravvicinati e i boschi non venissero ceduati a intervalli di pochissimi anni, potremmo proteggere la biodiversità, combattere il riscaldamento globale e ridurre drasticamente le importazioni di legname da opera dall’estero. Una politica industriale ed ecologica di lungo periodo che speriamo la Regione Toscana approvi, dimostrando la necessaria lungimiranza.

ASSOCIAZIONI FIRMATARIE

GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane, Movimento per la Terra e la Comunità Umana, WWF Toscana, Italia Nostra Toscana, ISDE – Medici per l’Ambiente, European Consumers, SIRF – Società Italiana di Restauro Forestale, Green Impact, Parents for Future, Atto Primo – Salute Ambiente Cultura, Comitato Val di Farma, Comitato per la salvaguardia della Montagnola Senese, Forum Ambientalista Toscano, Coordinamento Merse

San Rossore, l’unità del tutto e la mente dell’astronauta

San Rossore, l’unità del tutto e la mente dell’astronauta

Una colata di cemento minaccia ancora l’area contigua al Parco di San Rossore, all’interno della quale il Governo aveva previsto la costruzione di una cittadella militare. Un progetto che è ora in forse ma non è ancora stato del tutto cancellato, nonostante le forti proteste dei cittadini e delle associazioni che hanno fatto una grande manifestazione il 2 giugno, festa di quella Repubblica la cui Costituzione prescrive la difesa dell’ambiente e della biodiversità come bene comune.

Nonostante gli spiragli aperti circa l’abbandono dell’idea di realizzare l’opera all’interno del Parco Regionale, in un’area di grande pregio naturalistico e agricolo, ricco di fauna, resta alta la preoccupazione sulla realizzazione dell’opera in sé stessa, anche se il progetto dovesse essere spostato appena oltre i confini protetti. Si tratterebbe in ogni caso di consumo di suolo, disturbo per la biodiversità degli agro-ecosistemi e di nuovo smacco al territorio naturale, ora tutelato dalla Costituzione e alla luce della nuova Strategia europea sulla biodiversità per il 2030, che prevede l’estensione al 30% della superficie terrestre e marina protetta.

Si evidenzia poi il pessimo utilizzo dei fondi del PNRR (che finanzia la discussa opera militare), che destina briciole alla conservazione della biodiversità e ulteriori importanti fondi alla Difesa, che pure nel bilancio ordinario dello Stato conta già su ingenti risorse. Il Green Deal, solennemente annunciato e fortemente promosso, non può essere una simulazione ma deve rappresentare ovunque, in Toscana e in ogni parte del mondo, un cambiamento concreto.

Non solleviamo certo obiezioni sulla necessità della difesa della Patria, discutendone democraticamente i modi, ma c’è da dire che l’idea di “difesa” che anima questa scelta è inaccettabile perché riduttiva, limitata e parziale. Anche noi GUFI ci riteniamo, per nostre competenze, “addetti alla difesa”, ma non la recintiamo all’interno del perimetro contingente e militare: difendiamo i boschi, le foreste, il patrimonio comune da cui dipende la vita di tutte le generazioni che verranno e per questo difeso dall’art. 9 della Costituzione che peraltro è stato oggetto di estensione recente tra i princìpi fondamentali e irrinunciabili, agli ecosistemi ed alla biodiversità.      

Il caso è emblematico della miopia dell’essere umano, che non riesce a pensare in termini globali e a vedere la Terra per quello che è: un unico grande ecosistema di cui tutti facciamo parte e da cui dipende la sopravvivenza di ognuno di noi. Le ragioni dell’ambiente vengono costantemente messe in secondo piano di fronte alle esigenze umane, come se un ambiente sano non rientrasse tra queste esigenze.

Il 2022, con il ritorno della guerra in Europa, ci sta dimostrando più che mai quanto sia forte questo antropocentrismo e quanto le divisioni tra noi umani riescano sempre a essere più forti degli appelli all’unità dei popoli nel fronteggiare le minacce del cambiamento climatico e della perdita di biodiversità.

Nel 2019 i temi ambientali erano (finalmente) sulle prime pagine di tutti i giornali, anche per merito delle proteste di organizzazioni come i Fridays for Future ed Extinction Rebellion. Se ancora eravamo ben lungi dal prendere misure adeguate per arginare la catastrofe in corso, si cominciavano a vedere maggiori segnali di consapevolezza nell’opinione pubblica e sui media e qualche timido provvedimento politico a livello internazionale. Tutte cose che, seppur ancora insufficienti, potevano far sperare in un cambio di direzione dell’umanità.

Tutto questo è stato spazzato via negli ultimi due anni: la pandemia prima e la guerra poi hanno monopolizzato la nostra attenzione e il tema dell’ambiente è tornato a essere, di nuovo, l’ultima delle nostre preoccupazioni. Mentre la nostra casa brucia, siamo troppo occupati a ucciderci tra noi per fermarci anche solo il tempo necessario a spegnere l’incendio. Chiunque esca vincitore si troverà comunque con una casa in cenere, ma sembriamo non curarcene.

Questa poca lungimiranza è uno dei grandi difetti dell’essere umano, che con tutta la sua intelligenza non riesce a pensare oltre all’immediato e a ragionare sul lungo periodo.

Ma ciò che è più grave è che sembriamo vedere solo quello che ci divide e non quello che ci unisce. Non riusciamo ad acquisire la consapevolezza di essere un’unica specie. La nazionalità, l’etnia, il genere, l’orientamento sessuale, la religione, le opinioni politiche: sono infiniti i modi che ci siamo inventati per dividerci (e discriminarci, e spararci) tra di noi, per non vedere che siamo tutti, innanzitutto, terrestri. Sentirci terrestri ci obbligherebbe a ricordarci che sono tali anche piante e animali non umani, e a rinunciare ai nostri atteggiamenti predatori nei loro confronti. Ci obbligherebbe a specchiarci in ogni altro essere vivente e rinunciare alla violenza e alla prevaricazione. Ci obbligherebbe a considerare un’area naturale protetta più importante di una base militare.

Le pandemie causate dal degrado ambientale, le guerre e il riscaldamento globale hanno la stessa matrice, nascono dalla stessa fallacia logica: non riconoscere l’unità del tutto, il nostro essere non solo connessi, ma dipendenti da tutto il resto.

Ma è davvero impossibile per l’essere umano ragionare diversamente?

È interessante notare come la consapevolezza dell’unità del tutto sia invece estremamente presente nei (pochissimi) esseri umani che hanno goduto di una visione d’insieme che la maggior parte di noi non sperimenterà mai, cioè gli astronauti. Molti di loro, al ritorno sulla Terra, hanno dichiarato che guardarla da lontano, così piccola e fragile nell’universo, ha completamente cambiato la loro prospettiva: un fenomeno chiamato “overview effect”.

“Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini.
(Jurij Gagarin, osservando la terra dall’astronave Soyouz)”

Guardare il mondo dalla Cupola è indescrivibile. Si ha il senso di fragilità del pianeta Terra, con la sua atmosfera sottilissima, e dell’incredibile bellezza di questo gioiello sospeso nel velluto nero dello spazio.
(Luca Parmitano, astronauta italiano)

Nello spazio sviluppi una coscienza globale immediata, un sentimento verso le persone, un’intensa insoddisfazione verso la situazione del mondo e una compulsione a fare qualcosa per questo. Da qui fuori sulla Luna, i politici internazionali sembrano così insignificanti. Tu vorresti prendere uno di loro per la nuca, trascinarlo fuori a un quarto di milioni di miglia dalla Terra e dirgli “Guarda questo!”.
(Edgar Mitchell, astronauta statunitense dell’Apollo 14)

La maggior parte di noi non andrà mai nello spazio, ma dobbiamo imparare dalle parole di chi ci è stato, e acquisire quella visione d’insieme che è l’unica cosa che può fermare ogni tragedia, dalle guerre al riscaldamento globale.

Estendiamo, quindi, il concetto di “difesa” anche alla natura e le nostre azioni di conseguenza: chiediamo al Governo un ripensamento che porti a ridimensionare il progetto (francamente appesantito da cose che nulla hanno a che fare con le esigenze militari), a rivederne la localizzazione e la ratio.  Lavoriamo per una difesa integrata, e lasciamoci influenzare dall’ overview effect.

Il Valore del bosco: due scuole di pensiero

Il Valore del bosco: due scuole di pensiero

di Bartolomeo Schirone

Sugli incendi forestali, come su altri temi che riguardano le foreste, oggi si danno per assunti e scontati alcuni concetti che fino a qualche anno fa non lo erano per nulla. E non mi riferisco all’opinione pubblica in generale, ma proprio al mondo forestale.

Io sono laureato in Biologia, ma ho cominciato ad occuparmi di argomenti forestali quando ero ancora studente universitario e per svolgere delle ricerche bibliografiche frequentavo la biblioteca dell’Istituto di Selvicoltura della mia università.  Poi, il mio interesse per quelle discipline aumentò progressivamente fino a farmi decidere che era quello in settore al quale dovevo dedicarmi. Anche perché il mio mentore era Ervedo Giordano, un perfetto professore di selvicoltura scomparso l’anno scorso, la cui cultura generale e apertura mentale nei confronti dei temi scientifici erano veramente rare e nascevano anche dal fatto che aveva davvero viaggiato per mezzo mondo e conosciuto ambienti e persone di ogni tipo1). Eravamo nella seconda metà degli anni Settanta e, a livello europeo, si potevano distinguere nettamente due diversi approcci alla gestione del bosco: quello che per comodità potremmo definire di impostazione tedesca, e che oggi impera nella maggior parte dei Paesi dell’Europa centrale e settentrionale, e quello a prevalente matrice francese.

Nel primo caso, l’impostazione è di tipo economico-produttivistico e interpreta il bosco come una realtà che deve essere dominata, uniformata e quasi geometrizzata per fornire un solo prodotto, quello legnoso, nella maggiore quantità e migliore qualità possibile. A tal fine, l’insieme delle tecniche colturali adottate rendono la selvicoltura nordica qualcosa di veramente molto simile all’agricoltura. In pratica, si taglia il bosco, si ara il terreno e si mettono a dimora nuove piantine forestali tutte uguali e disposte con grande precisione su file parallele, grazie anche alla meccanizzazione spinta di tutte le operazioni. Alla fine del ciclo colturale, il bosco si taglia e si ricomincia daccapo. In effetti, i boschi svedesi o finlandesi, apparentemente molto belli, sono in assoluto tra i più poveri di biodiversità.

Il secondo approccio alla gestione della foresta, che ha visto i francesi tra i massimi teorizzatori, è di stampo decisamente più naturalistico nel senso che cerca, per quanto possibile, di rispettare l’ecologia dei popolamenti forestali e, soprattutto, non prevede l’ossessivo ricorso alla piantagione successiva ai tagli di utilizzazione, ma dà spazio alla rinnovazione naturale del bosco, quella che si genera a partire dai semi liberati dagli alberi stessi.

A questo secondo indirizzo si è sempre ispirata la Scuola Forestale Italiana che, a partire dal primo dopoguerra, aveva già assunto un suo specifico profilo e aveva espresso figure di elevato spessore scientifico a cominciare dal capostipite, quell’Adolfo di Bérenger, tedesco di nascita, francese di famiglia, austriaco di formazione e italiano per cultura e vocazione, che promosse la fondazione del Regio Istituto forestale  (inaugurato a  Vallombrosa nel 1869 e di cui divenne il primo direttore), segnando l’inizio della selvicoltura in Italia.  Ma va subito sottolineato che Di Bérenger non era un semplice forestale: aveva un laurea in filosofia, era poliglotta, era un fine cultore della storia e della letteratura greca e latina che studiava direttamente dai testi in lingua originale, aveva un diploma in Scienze Naturali, era un capace botanico e un ecologo sapiente tanto da intrattenere proficui rapporti culturali – e di amicizia personale – con George Perkins Marsch, considerato da molti come il primo ecologista americano, il quale giunto in Italia come ambasciatore degli Stati Uniti, trascorse i suoi ultimi giorni proprio a Vallombrosa.

La Scuola Forestale Italiana nasce, quindi, in un’effervescente e feconda atmosfera culturale in cui il confronto tra forestali, botanici, naturalisti, ecologi e altri intellettuali era continuo, corretto e costruttivo e i ruoli degli uni erano molto spesso scambiabili con quelli degli altri. E devo dire, in tutta onestà, che quest’aria si respirava ancora negli anni Settanta nonostante qualche tendenza all’arroccamento corporativo dei forestali che, negli anni del Fascismo, si erano in qualche modo “militarizzati”, per così dire. Però il dialogo tra esponenti del mondo forestale e di quello dei naturalisti continuava proficuo perché ambedue le categorie avevano come riferimento concettuale e principio informatore delle loro attività la conservazione delle foreste. La differenza di visione si riduceva, per dirla con il mio amico Spada, nell’ordine delle azioni: Conservare per rinnovare vs Rinnovare per conservare.

È certo che l’obiettivo comune a tutti i forestali di quegli anni, docenti universitari o dipendenti dell’Amministrazione Forestale dello Stato era il medesimo: aumentare le provvigioni dei nostri boschi, estenderne le superfici e aumentarne la complessità. Il modello di riferimento, teorizzato da Lucio Susmel, era la fustaia mista disetanea. Si mirava, per quanto possibile, a ridurre le superfici delle tagliate e, pur nella consapevolezza che il governo a ceduo era una realtà inevitabile per alcuni territori, si promuovevano le conversioni. Egualmente, si studiava ancora il carbone da legna, ma la navigazione seguiva la rotta che portava all’incremento della produzione di legname da opera e non di legna da ardere. E che ciò fosse possibile, lo si dimostrava. Non mi stancherò mai di ricordare, infatti, che Parchi nazionali come quello delle Foreste Casentinesi o del Gargano sono stati istituiti per conservare Foreste restaurate, plasmate e sapientemente gestite dai Forestali dell’allora Azienda di Stato per le Foreste Demaniali.

Lo spirito di quei tempi si ritrova ancora negli Atti del Secondo Convegno Nazionale di Selvicoltura tenutosi a Venezia nel giugno del 1998.  L’accento è sempre sul valore dei boschi legato alla loro conservazione che sola può garantire un futuro che vada oltre il prodotto. Ad esempio, nella sua mirabile relazione, Alfonso Alessandrini, allora Direttore Generale delle Foreste e dell’Economia Montana presso il Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, già parla di progetti di restauro dei boschi italiani, da condurre addirittura con gli industriali del legno per aumentare le provvigioni, per ridare dimensione alle foreste. E gli fa eco, nello stesso convegno, Franco Arquati, industriale del legno, che parla di restauro forestale, conversioni all’alto fusto e occupazione giovanile. Per contro, Alessandrini si scaglia contro la pianificazione ossessiva del territorio e degli interventi forestali. Sue parole: “In Italia c’è un fervore, quasi ossessivo di pianificazione, di carte. C’è il rischio di fatti ripetitivi ed invasivi se non offensivi” e continua parlando di “esigenza di ambiente naturale”.

Tale idea della foresta e del ruolo dei forestali non si è persa del tutto, ma non posso non osservare che accanto a questa scuola di pensiero, ovvero ai suoi ultimi epigoni, ne sta crescendo prepotentemente e con gran vigore un’altra che propone una visione affatto differente, una che arriva a dire che i boschi sono troppi e sottraggono terreno alle attività produttive. La svolta, o diversificazione, come vogliamo chiamarla, si è avuta proprio a partire dall’inizio degli anni Duemila e la ragione non sono riuscito a capirla fino in fondo. Forse è collegata con la nascita e il prodigioso sviluppo delle nuove tecnologie digitali che consentono di fare in brevissimo tempo e con grande comodità operazioni che prima richiedevano grande dispendio di energie. La conseguenza è che il lavoro forestale è diventato sempre più un’attività in smart working non impegnando il ricercatore o il professionista in lunghe “sessioni” in natura. La frequentazione del bosco è diventata un complemento non sempre necessario e non sempre gradito.

Gli esiti di questa nuova visione della foresta si ritrovano tutti nella legge n.34 del 2018 “Testo Unico in materia di Foreste e di Filiere Forestali”, detto TUFF, e nella recente Strategia Forestale Nazionale che ad essa si collega. Si tratta di un provvedimento che, per la prima volta rispetto a tutti i precedenti analoghi, ha suscitato l’indignata protesta del mondo degli ecologi, dei naturalisti e dei botanici a partire da ben tre ex presidenti della Società Botanica Italiana, anche perché nessun rappresentante di queste categorie di esperti è stato chiamato a collaborare alla stesura della legge nonostante non si possa dire, né si era mai detto prima, che il bosco sia di competenza esclusiva dei forestali. Ma alla protesta si sono uniti anche non pochi vecchi forestali e docenti, compreso il sottoscritto, per l’impronta produttivistica di stile nordico posta al centro delle attività forestali.

Ma cosa c’è di discutibile in questi testi? A mio avviso molte cose, ad iniziare dalla terminologia utilizzata perché, nel tentativo di cercare nuovi percorsi semantici che evidenziassero il carattere innovativo del prodotto, si è peccato di imprudenza. Infatti, l’insieme delle azioni mirate a conservare e migliorare i boschi italiani – come enunciato nell’art. 1, Principi – nella prima bozza della legge viene definito “Gestione attiva” della foresta. Subito dopo viene spiegato che la “Gestione attiva” non è altro che il complesso dei tagli possibili. Poi, forse anche sull’onda delle proteste, ci si rende conto che l’espressione “Gestione attiva” non è la più conveniente e si scrive che “gestione attiva delle foreste” è espressione equivalente a “gestione sostenibile delle foreste”. Ora, premesso che il vocabolario italiano non agevola tale equivalenza, io ritengo che si sia commesso un errore di fondo. Le modalità di taglio del bosco (la cosiddetta gestione attiva secondo il TUFF) sono uno degli oggetti principali della selvicoltura, scienza empirica che nasce dall’esigenza di guidare gli interventi di prelievo legnoso dal bosco senza degradare il medesimo, anzi garantendone la perpetuazione. La selvicoltura, che raccoglie un plurisecolare patrimonio di esperienze, si pone proprio l’obiettivo di trarre un utile dalla foresta danneggiandola il meno possibile ossia assicurando la conservazione dell’efficienza dei meccanismi che ne regolano gli equilibri vitali. In altri termini, la selvicoltura è di per sé sostenibile e non può essere altrimenti. Chi non pratica una selvicoltura sostenibile, ossia la selvicoltura tout court, non è un forestale, ma un incompetente di madre culturale ignota. D’altra parte, il famigerato aggettivo “sostenibile”, nasce e può trovare applicazione solo in ambiente economico e industriale, lì dove si continua ad evocare il famoso quanto ambiguo “sviluppo sostenibile”. Non per nulla, l’aggettivo “sostenibile” non è stato adottato nel mondo delle scienze d base e di quelle che si riferiscono agli organismi viventi. Non esiste certamente una matematica o una fisica sostenibile, ma nemmeno una biologia sostenibile e nemmeno una medicina e chirurgia sostenibili. Immaginate una “clinica oculistica sostenibile”; a uno che per sbaglio va in una clinica oculistica che non reca la dicitura sostenibile che fanno? Gli cavano un occhio? Cerchiamo quindi di essere più precisi e coerenti altrimenti ci facciamo male da soli. Di recente ho sentito parlare addirittura di corsi di laurea in Gestione Sostenibile delle Foreste. Ma perché? Esistono in qualche università italiana corsi di laurea in Gestione Insostenibile delle Foreste? Non capisco davvero cosa si voglia intendere. La selvicoltura, quella con la S maiuscola, ancorché finalizzata alla produzione legnosa, non può non essere sostenibile e di conseguenza il vero forestale conosce solo la gestione sostenibile della foresta. Punto.

Non posso e non voglio dilungarmi, perché il tempo non lo consente, sui tanti altri aspetti che fanno divergere il vecchio pensiero forestale da quello più giovanile, ma non posso evitare un accenno ai cosiddetti servizi ecosistemici ai quali sia il TUFF che la Strategia Forestale Nazionale fanno ampio riferimento. Negli anni Settanta si parlava di tre funzioni del bosco: produttiva, protettiva e culturale-ricreativa. Adesso queste funzioni sono state addirittura suddivise in sottocategorie e si parla di almeno quattrodici tipologie di servizi ecosistemici. Dopodiché si offrono dei suggerimenti per gestire il bosco in modo che esso possa garantire questi servizi. Ora, sorvolando anche sul fatto che il bosco non è nato per erogare servizi, agli esperti che si sono impegnati nella stesura di questi testi è sfuggito, a mio parere, che l’ecologia e la stessa termodinamica avvisano che l’insieme dei servizi ecosistemici può essere fornito solo da un ecosistema integro. Tanto più è perturbato il bosco, tanto meno può risultare servizievole. Ciò significa che sarebbe opportuno approfondire l’argomento per arrivare a produrre un abaco che metta in relazione lo stato della foresta con gli eventuali ecoservizi che la stessa può erogare perché la generalizzazione può essere fuorviante. Infatti, gli ecoservizi offerti da un ceduo a turno breve sono ben pochi, almeno così credo.

Il problema di fondo, comunque, è che dopo tanti anni di evoluzione positiva delle idee sulla natura degli ecosistemi forestali e del rapporto uomo-bosco, si è tornati ad una visione di tale rapporto che considera l’uomo soggetto esterno e dominante, tanto che tocca sentire nuovamente circolare, anche in ambienti universitari, la fandonia secondo cui “il bosco ha bisogno dell’uomo” perché senza la selvicoltura il bosco muore. E il paradosso è che tutte le indicazioni fornite dal TUFF e dalla Strategia Forestale Nazionale non portano, come volevano i vecchi forestali, verso un incremento della complessità – che forse potrebbe richiedere l’intervento dell’uomo – ma verso una semplificazione sempre maggiore dei soprassuoli. La forma di governo prevalente sta tornando ad essere il ceduo perché i popolamenti invecchiati non vengono convertiti a fustaia, i turni si accorciano, le superfici assoggettate al taglio diventano più ampie e anche la lotta agli incendi boschivi ormai si risolve prima di tutto in nuovi tagli, una delle principali declinazioni della recentissima quanto aberrante selvicoltura “preventiva”!

Questa è, a mio avviso, la più triste e pericolosa conclusione di questa vicenda: per questo tipo di gestione attiva e preventiva del bosco basta un taglialegna, il forestale non serve più. Qualcuno dirà che questo è il futuro di tutte le professioni, compreso l’intero mondo della scienza. È vero, come stiamo già osservando, il lavoro del ricercatore non servirà più perché verrà sostituito dall’intelligenza artificiale. Nel frattempo, però, mi piacerebbe si usasse ancora l’intelligenza naturale.

  1. Molto devo anche al prof. Raffaello Giannini, all’epoca il più giovane Ordinario di Selvicoltura d’Italia, che, per far capire lo spirito del tempo, era anche il Delegato regionale del WWF per la Puglia.
Proteggere i boschi cedui che hanno passato il turno di taglio

Proteggere i boschi cedui che hanno passato il turno di taglio

La direttiva dei Carabinieri Forestali e come il cittadino può farla rispettare

Recentemente è stato attaccato molto duramente il comando dei Carabinieri forestali per una direttiva operativa, firmata dal Comandante in persona, in cui si danno disposizioni alle stazioni forestali di perseguire come taglio illegale di fustaia le utilizzazioni in cedui che hanno superato di una volta e mezzo il turno minimo fissato dalle leggi regionali (diversi da una regione all’altra, ma mediamente intorno ai 20 anni per i cedui di querce, 25 per quelli di faggio e 15 per quelli di castagno). 

Intendiamo esprimere piena solidarietà ai Carabinieri forestali contro questa dura presa di posizione del settore delle ditte forestali e appoggia le linee di politica forestale a favore del taglio raso espresse da molte regioni e dallo stesso Ministero dell’Agricoltura.

La nostra Associazione saluta invece con molta soddisfazione questa chiara e netta presa di posizione dei Carabinieri Forestali a tutela delle funzioni ecologiche dei boschi, che pone finalmente argine al dilagare produttivistico delle politiche forestali regionali, in tutto inclini a favorire gli operatori economici della filiera delle biomasse.

Il vertice dei Carabinieri forestali è stato accusato di scarsa collaborazione istituzionale, per avere imposto una lettura unilaterale della legge forestale senza consultare le regioni. Noi crediamo Invece che i Carabinieri, giustamente, abbiano inteso rispondere e fare riferimento soltanto alla legge, applicando una lettura del tutto in linea anche con le recenti ed importantissime modifiche costituzionali a favore dell’ambiente. Pensiamo piuttosto che la scarsa collaborazione istituzionale venga proprio dalle regioni, che continuano ad approvare leggi eversive del nostro ordinamento costituzionale. Non da ultima regione Toscana, che ha approvato una discutibilissima modifica della legge forestale, in contrasto con l’articolo 9 della Costituzione, con il codice della tutela del paesaggio e con lo stesso testo unico forestale, già impugnata dal governo di fronte alla Corte Costituzionale.

Auspichiamo adesso che i reparti dei Carabinieri forestali, in tutte le loro articolazioni territoriali, applichino fedelmente quanto disposto dal loro vertice.

Invitiamo inoltre tutti i cittadini a collaborare con gli organi di controllo, segnalando i tagli di bosco ceduo in cui risulta probabile l’avanzata età degli alberi. Per questo motivo intendiamo dare alcuni consigli pratici per rendere la segnalazione di ogni cittadino uno strumento efficace in mano ai Carabinieri forestali.

Per verificare l’età di un bosco è necessario contare gli anelli delle ceppaie recise sui Polloni del ceduo, facendo attenzione ad escludere le matricine tagliate. Quest’ultime si riconoscono bene perché la loro ceppaia ha la chiara forma di un cono molto schiacciato, mentre la ceppaia dei Polloni evidenzia maggiori irregolarità. Osservando una ceppaia è facile riconoscere le sezioni di taglio di ogni singolo Pollone e, con un po’ di attenzione, distinguere gli anelli di accrescimento. Per avere un dato più attendibile, è buona regola contare gli anelli di almeno cinque o sei ceppaie sparse sull’aria di taglio. Per facilitare l’individuazione degli anelli è meglio portarsi dietro un pezzo di carta vetrata non troppo fine e, eventualmente, spargere sulla sezione di taglio un po’ di terriccio raccolto intorno, o versare sopra dell’acqua in modo da evidenziare meglio la discontinuità degli anelli di legno.

Il secondo passo da fare è quello segnare la ceppaia con un segno evidente ed indelebile, ad esempio con una bomboletta di vernice spray spruzzata fuori dalla sezione di taglio. Il terzo passo è quello di scattare una foto più nitida possibile alla sezione di taglio, in modo che gli anelli possano essere contati anche dalla foto. Prima di scattare la foto e buona regola poggiare sulla sezione di taglio del pollone un oggetto che permetta di avere un’idea delle dimensioni dell’albero tagliato punto la miglior cosa sarebbe usare un righello graduato. Se si ha un pennarello indelebile, è buona regola numerare ogni ceppaia scrivendo la cifra In modo tale che non disturbi la conta degli Anelli. A questo punto è possibile scattare la foto, più nitida possibile, avendo cura di inquadrare tutti gli elementi elencati: il righello, il numero, e anche il segno di vernice, che sarà molto importante in seguito per ritrovare la ceppaia dentro all’area di taglio e riconoscerla. Sarebbe ottimale associare ad ogni foto un punto di coordinate note, preso appoggiando un semplice smartphone sulla ceppaia e utilizzando una delle tante applicazioni GPS che si scaricano dal web (ad esempio “stato GPS”).

Una cosa molto importante da non dimenticarsi è quella di prendere la posizione dell’area che si sta esaminando. Per far questo è sufficiente aprire, ad esempio, l’applicazione di Google Maps, aspettare che il GPS ci indichi la posizione sulla mappa (generalmente un punto di colore blu), tenere premuto per 3 secondi il dito su tale punto, creando così un segnaposto, toccando in basso il pulsante di condivisione e scegliendo l’opzione di “copia negli appunti”. Poi si apre una app per appunti, ad esempio “blocco note”, e si incolla il link di Google Maps che ci porta a quella posizione. 

Adesso la cosa migliore è organizzare tutto su un file word, scrivendo una breve relazione su quello che si è visto, e incollando le foto prese, magari corredate da una breve didascalia dove si indicano gli anelli contati e le coordinate della ceppaia. Poi si incolla il link della posizione del cantiere forestale ricavata da Google Maps. A questo punto la segnalazione può anche essere mandata per mail all’indirizzo della più vicina struttura dei Carabinieri forestali, avendo cura di indicare tutte le proprie generalità: nome cognome data e luogo di nascita, indirizzo di residenza e numero di telefono dove è possibile essere contattati per maggiori chiarimenti. Bisogna poi allegare all’email anche una copia di un documento valido.

Dobbiamo imparare a collaborare bene ed efficacemente con le istituzioni, senza limitare la nostra azione di cittadinanza attiva soltanto alla pubblicazione di post sui social, che sono comunque importanti per segnalare le criticità incontrate durante la nostra attività quotidiana.

Un bosco abbandonato è un bosco restituito alla natura

Un bosco abbandonato è un bosco restituito alla natura

Quando si parla delle foreste italiane vengono spesso fatte due affermazioni. La prima è che i boschi italiani siano in forte espansione. La seconda è che il nostro patrimonio boschivo soffra di “abbandono” e abbia bisogno di una maggiore manutenzione e di essere “gestito” per rimanere in salute.

La prima è solo una mezza verità. La seconda è un’affermazione falsa e smentita dalla scienza.

Partiamo dalla prima. Se è vero che la mera superficie dei boschi italiani è in aumento, va ricordato che il punto di partenza da cui si calcola questo aumento è il minimo storico di superficie raggiunto nel secondo dopoguerra: solo negli ultimi decenni i nostri boschi hanno cominciato a riprendersi dopo secoli di disboscamento selvaggio. E la situazione non è rosea come viene spesso descritta.

Quanto è verde il nostro paese? In Italia, circa un terzo del territorio nazionale è coperto da boschi. Ma solo una piccola parte delle foreste è sottoposta a vincoli ambientali che la proteggano: l’11% del paese, contro una media europea del 14%. Come stanno, davvero, le nostre foreste? Ha senso basarsi solo sulla mera espansione della loro superficie per definirle in salute? La realtà è più complessa di così. Per le statistiche nazionali, che contano solo la superficie, viene definita foresta anche un territorio intensivamente sfruttato, dove gran parte degli alberi (i più vecchi) sono stati tagliati e il sottobosco è stato completamente distrutto. Nel valutare lo stato di salute di una foresta, è importante considerarne non solo la superficie, ma anche la quantità di biomassa presente nella stessa. Venti ettari di foresta vetusta, con alberi grandi e piccoli, un sottobosco intatto e una buona quantità di necromassa (legno morto, indispensabile per la sopravvivenza di molte specie) sono venti ettari di meraviglia della natura e traboccano di biodiversità. Altrettanti venti ettari di bosco gestito a ceduo, dove sopravvivono solo pochi giovani alberi su un terreno spogliato del sottobosco e seccato dal sole, i cui raggi non vengono più filtrati dalla canopea degli alberi, sono qualcosa di completamente diverso: la biodiversità si riduce drasticamente, si espone quel territorio al rischio idrogeologico, il terreno privo di sottobosco perde gran parte della sua umidità e favorisce la propagazione degli incendi.

Eppure, per le statistiche nazionali, entrambe le situazioni sono “una foresta”. Ma a volte a contare come foresta sono persino le strade: questo avviene già per le strade piccole, e adesso verranno contate come territorio forestale anche strade enormi. Il Decreto Viabilità approvato dal Ministero delle Politiche Agricole (a cui è affidato il coordinamento a seguito del trasferimento dei poteri alle Regioni) stabilisce che sulle montagne italiane possano essere aperte strade larghe fino a 6 metri per garantire la “manutenzione” dei boschi. Uno scempio ambientale che le statistiche nazionali non registreranno, perché, stando al decreto, la metratura della strada continuerà ad essere conteggiata come superficie boschiva. Il decreto viabilità è un decreto attuativo del TUFF, il Testo Unico Forestale, la legge ammazza-foreste approvata dal governo Gentiloni che provocò l’insorgere degli scienziati italiani, che in oltre 250 firmarono una lettera di protesta, rimanendo purtroppo inascoltati.

La seconda affermazione, quella secondo cui un bosco dove non si tagliano alberi sarebbe “abbandonato” e quindi in pericolo, è assolutamente falsa. Chi porta avanti questa teoria promuove il taglio degli alberi più vecchi (importantissimi per la foresta: basti pensare a tutte le specie che fanno il nido nella cavità dei loro tronchi) per lasciare solo i più piccoli e giovani. Il turno di taglio in Italia è ormai solo quello che in termini tecnici si definisce “turno finanziario”: ovvero tagliare ogni 15-20 anni per massimizzare il profitto. Ma soli quindici anni, per una foresta, sono un battito di ciglia. La manutenzione così spesso invocata consiste anche nel rimuovere il legno morto e distruggere il sottobosco, colpevole di ostacolare il passaggio dei macchinari per il taglio degli alberi.

I boschi hanno davvero bisogno di tutto ciò per rimanere in salute? Assolutamente no. Le prime foreste sono comparse sul nostro pianeta circa 350-400 milioni di anni fa, mentre l’essere umano (inteso come Homo sapiens) vive sulla Terra da poco più di 200mila anni. È quindi lapalissiano che le foreste si siano evolute e siano sopravvissute per centinaia di milioni di anni senza alcun intervento da parte dell’uomo, e hanno invece prosperato e coperto gran parte delle terre emerse.Chiunque abbia avuto l’ormai raro privilegio di camminare in una foresta vetusta, antica e poco disturbata dalla mano dell’uomo, capisce intuitivamente quanto sia arrogante e antropocentrico pensare che ecosistemi così complessi e ricchi di biodiversità, frutto di milioni di anni d’evoluzione, possano avere bisogno dell’intervento costante dell’ultima specie arrivata (la nostra) per prosperare.

Il bosco è un ecosistema, e come tutti gli ecosistemi è autosufficiente e attraverso complesse relazioni tra piante, animali, funghi e batteri che vivono al suo interno crea un equilibrio perfetto dove ogni suo abitante trova riparo, nutrimento e ciò che occorre alla sopravvivenza della sua specie. L’uomo non fa eccezione: anche noi abbiamo bisogno del bosco per trarne ciò che ci serve per vivere. La differenza sta nel fatto che l’uomo non si ferma dopo aver prelevato il necessario: supportato dalla tecnologia e spinto da interessi economici, ha un potenziale distruttivo sconosciuto alle altre specie e può alterare l’equilibrio di un ecosistema, anche fino alla sua scomparsa. Se è vero che l’uomo ha bisogno di prelevare del legname per le sue necessità, questo dimostra solo che siamo noi a essere dipendenti dalle foreste, e non certo il contrario: una dipendenza di cui dobbiamo tenere conto nel momento in cui decidiamo quanto e cosa tagliare. Al momento, solo una piccola parte del legname prodotto in Italia viene usato per scopi nobili come la produzione di mobili: la maggior parte viene bruciato nelle centrali a biomasse forestali per produrre energia elettrica. Un sistema di produzione di energia che gode di lauti sussidi in quanto considerato “energia rinnovabile”, che però sta mettendo sotto forte pressione il nostro patrimonio boschivo.

Le foreste, oltre a costituire la nostra migliore arma nella lotta al cambiamento climatico, sono fondamentali per la salute umana: la deforestazione e la perdita di habitat sono tra i fattori più rilevanti nella nascita delle pandemie. Non è quindi il bosco ad aver bisogno di noi, siamo noi ad aver bisogno del bosco. E dei nostri boschi stiamo facendo un uso scellerato.

Un esempio di ciò è la proposta di allargare i cosiddetti “usi civici”, una prerogativa storica di alcune piccole realtà, a gran parte del territorio nazionale. Gli usi civici sono una tradizione antica che giustamente considera le foreste come patrimonio collettivo, e quindi permette agli abitanti di una certa zona – e solo a loro – di fare piccoli prelievi di legname dal bosco, a uso domestico e per motivi di sussistenza, quali far andare la stufa in un’epoca in cui certo non era possibile utilizzare il metano o i pannelli solari per scaldarsi. Si trattava quindi di prelievi moderati e a basso impatto, anche perché la cultura contadina di una volta era infinitamente più consapevole dell’importanza del bosco e della necessità di non rovinarlo.

L’idea di allargare enormemente gli usi civici e il considerare la proprietà privata delle foreste come un male costituisce un grave pericolo per il patrimonio boschivo. L’equiparazione di un bosco privato che i proprietari stanno lasciando alla sua evoluzione naturale a un terreno incolto e abbandonato, come stabilito dal Testo Unico Forestale, lascia alle amministrazioni comunali la possibilità di alienare boschi privati che sono diventate piccole oasi naturali, per aprirle al taglio. L’allargamento degli usi civici, pensati per un contesto economico, culturale e demografico completamente differente da quello attuale, può portare facilmente ad abusi che distruggeranno quanto costruito da generazioni di cittadini consapevoli.

È quindi importante che, nel parlare di aumento della superficie forestale italiana, si tenga conto anche dell’effettivo stato di salute delle nostre foreste; che si smetta di parlare di “abbandono del bosco”, perché la natura, senza gli umani, sta benissimo; che si smetta di definire “manutenzione” o “gestione” pratiche che in realtà sono volte alla produzione di legname e non certo alla protezione dell’ambiente; e che non si snaturi la tradizione degli usi civici per creare occasioni di taglio persino nei boschi privati che i cittadini hanno restituito alla natura.

Le foreste non hanno bisogno della nostra manutenzione, hanno bisogno del nostro rispetto.