DIFFIDA CONTRO LA PRODUZIONE E LA COMMERCIALIZZAZIONE DEGLI OGM E DEGLI NTB IN ITALIA RELATIVA AGLI SCHEMI DEI DECRETI N. 208, 211 e 212.

DIFFIDA CONTRO LA PRODUZIONE E LA COMMERCIALIZZAZIONE DEGLI OGM E DEGLI NTB IN ITALIA RELATIVA AGLI SCHEMI DEI DECRETI N. 208, 211 e 212.

Illustrissimi Presidente della Repubblica Italiana, Presidente del Consiglio dei Ministri, Presidente del Senato, Presidente della Camera dei Deputati, Ministro delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministro per gli Affari Europei, Ministro della Salute, Ministro della Giustizia, Ministro degli Affari Esteri e dalla Cooperazione Internazionale, Ministro dell’Economia e delle Finanze, Ministro dello Sviluppo economico

La presente come diffida a non procedere ad emanare i decreti legge proposti alla Camera e al Senato con gli schemi di decreto legislativo trasmessi urgentemente alle competenti commissioni parlamentari il 2 novembre 2020 ed inerenti “l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/2031 e del regolamento (UE) 2017/625”e recanti Norme per la produzione e la commercializzazione dei materiali di moltiplicazione e delle piante da frutto e delle ortive….”, “Norme in materia di produzione a scopo di commercializzazione e la commercializzazione di prodotti sementieri…” e “Norme per la produzione e la commercializzazione dei materiali di moltiplicazione della vite…” per quanto attiene l’incoerente inserimento dell’organizzazione normativa della produzione e della commercializzazione degli organismi OGM ed NTB e comunque organismi geneticamente modificati in senso ampio e conseguente attribuzione di una privativa vegetale.

Essendo già operativo su tale argomento il decreto legislativo 24 aprile 2001 n.212, che oltre a sancire nel suo primo articolo che “Al fine di assicurare la tutela della salute umana e dell’ambiente, detta attuazione avviene nel rispetto del principio di precauzione di cui all’articolo 174.2 del  Trattato di Amsterdarm”, rende inammissibile una modifica alla legge già esistente in contraria avversione al principio di cautela, precauzione, azione preventiva e responsabilità dell’agire politico governativo e amministrativo.

In considerazione del fatto acclarato che gli OGM non sono stati testati abbastanza a lungo e non possono esser considerati privi di deprecabili conseguenze per la salute come evidenziato da numerose pubblicazione in materia.

https://inclusiveresponsibility.earth/book/chapter-13?fbclid=IwAR2t1UgRhP83TEbv_00s-neGworu1g_3UIve7ggJc8tl-USeMDN_aPE3YVA

Non potendo nessuno ignorare che le privative vegetali attentano alla sovranità alimentare del popolo Italiano ed europeo così come attentano alla sicurezza alimentare, in aperto contrasto con la Convenzione sulla Diversità Biologica ratificata dall’Italia con la Legge 14 febbraio 1994, n. 124, con il Trattato Internazionale per le Risorse Fitogenetiche ratificato dal Parlamento italiano con legge n. 101 del 6 aprile 2004 (a cui è stata data confacente attuazione attraverso l’articolo 5bis con la legge 6 aprile 2007 n. 46) e con le stesse Convenzioni UNESCO per l’ambiente e la biodiversità.

Visto che il D.L. 279/2004 aveva inoltre introdotto (art.8) una sostanziale moratoria sull’utilizzo di OGM in agricoltura nel nostro Paese, destinata ad essere rimossa solo quando tutte le regioni avessero adottato i Piani regionali di coesistenza tra colture tradizionali, biologiche e transgeniche (ossia le regole tecniche volte ad evitare ogni forma di commistione e ad assicurare la separazione delle filiere).

Visto che la sentenza della Corte costituzionale n. 116 del 2006 ha dichiarata l’illegittimità di numerose disposizioni del decreto-legge, annullando nella sostanza tutte le norme funzionali all’adozione dei Piani di coesistenza regionali (Comitato consultivo, linee-guida, DM-quadro, Piani di coesistenza e relative sanzioni) in quanto lesive delle competenze legislative regionali.

Visto che il decreto è quindi significativamente ridimensionato, mentre alle regioni è stata riconosciuta la piena ed immediata competenza in materia, anche in ordine all’uso di OGM.

Visto che nonostante la dichiarazione di illegittimità costituzionale del decreto legge n.279/2004 (e conseguentemente del venir meno della “moratoria formale“ ivi prevista), sul territorio nazionale non vengono attualmente coltivati OGM (“moratoria sostanziale”), in quanto nessuna autorizzazione è stata rilasciata sulla base del decreto legislativo n.212 del 2001; la coltivazione, assai contenuta, è realizzata ai soli fini di ricerca.

Visto che per via della controversa sicurezza degli OGM in data 18 marzo 2010 la Commissione Sementi Geneticamente Modificate – nella quale sono rappresentati, oltre al Ministero delle politiche agricole  alimentari e forestali, il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Ministero della Salute, le Regioni Basilicata, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Toscana e Veneto – ha deciso all’unanimità di negare l’autorizzazione alla domanda di iscrizione al registro del mais Ogm.

Visto il divieto al mais Mon 810 che è stato deciso dai commissari

(http://documenti.camera.it/leg16/dossier/testi/Am0117.htm#_ftn22) della Commissione Sementi Geneticamente Modificata, sulla base di un dossier presentato dal Friuli Venezia Giulia il cui relativo decreto è stato firmato dal Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali .

Visto che le biotecnologie transgeniche applicate in agricoltura rappresentano una delle innovazioni più controverse che negli ultimi decenni hanno interessato il settore agricolo. Le insufficienti informazioni circa i possibili effetti nel lungo periodo, per l’uomo e per l’ambiente, pongono dubbi rilevanti sulla reale necessità di applicazione e di rilascio ambientale.

Visto che in base alla recente direttiva 2015/412/UE è data la possibilità ad uno Stato membro di limitare o di vietare la coltivazione di un determinato OGM sul proprio territorio in seguito all’autorizzazione a livello europeo. 

Considerato che la legge Europea non ha ancora normato gli Ogm creati con la tecnica di genoma editing (GE), NPBT (New Plant Breeding Techniques), Mutagesi. Non potendo ignorare che l’Italia ha deciso a suo tempo di applicare il principio di precauzione sul suo territorio.

Tenendo presente che gli articoli 24, 41, 95, 97, 103 e 113 Cost. che incardinano l’operato della P.A. all’adeguatezza e congruità con il fine pubblico anche in considerazione della conseguente categorizzazione dei profili degni di tutela da parte dell’ordinamento degli interessi protetti e sussunti all’interno delle qualifiche di interesse legittimo e diritto soggettivo posti a garanzia del “bene della Vita” e dell’ambiente sano e non contaminato.

Ricordando “che la P.A. ha in quella che è definita attività discrezionale, la facoltà e la possibilità di scelta fra più comportamenti giuridicamente rilevanti per il soddisfacimento dell’interesse pubblico e il perseguimento del fine rispondente alla causa del potere esercitati”, crediamo sia necessario che questa P.A. applichi questa attività discrezionale a favore dei cittadini e non contro di loro, rivalutando immediatamente la sua posizione in merito, visto che ciò è nella sua piena facoltà funzionale.

Ricordando che per la P.A. il dolo consiste nella coscienza e volontà dell’agente in ordine alla commissione del fatto lesivo. Del dolo si distinguono diverse forme tra cui il dolo eventuale o indiretto, in cui la volontà non è volta al compimento del fatto lesivo, ma l’agente lo accetta come conseguenza eventuale della propria condotta (contaminazioni, perdita di biodiversità e ogni altro fattore lesivo e conseguente, derivante da tale riassetto che potrebbero manifestarsi).

Anticipando che se perpetrato, questo indirizzo politico cagionerà danni irreversibili ad un ambiente di per sè già gravemente compromesso a causa dell’inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua, inquinamento che ricordiamo è responsabile di  milioni di morti premature ogni anno a livello globale. 

Considerando che l’enorme disagio che la popolazione attualmente sta vivendo a causa dell’emergenza sanitaria, dal punto di vista economico e sociale, non può e non deve essere aggravato da leggi inadatte alla tutela dell’ambiente e della salute umana.

Essendo inaccettabile che si impongano durissime restrizioni ai cittadini per tutelare la salute quale bene primario superiore –  tanto da surclassare buona parte dei diritti inalienabili della persona sanciti dalla Costituzione Italiana – e nel frattempo si permetta su tutto il Territorio Italiano la produzione e la commercializzazione di organismi geneticamente modificati su cui la comunità scientifica è fortemente divisa.

Considerando la definizione di sviluppo sostenibile contenuta nel rapporto Brundtland (conosciuto anche come Our Common Future) pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED) e cioè : Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri” (WCDE 1987) e che in tale definizione, non si parla propriamente dell’ambiente in quanto tale, ma ci si riferisce al benessere delle persone, e quindi anche alla qualità ambientale, mettendo in luce la responsabilità da parte delle generazioni attuali nei confronti delle generazioni future, circa il mantenimento delle risorse e dell’equilibrio ambientale del nostro pianeta.

Visto che è stato sollevato da buona parte della comunità scientifica il sospetto che la presenza di questi organismi modificati possa attentare alla sopravvivenza delle biodiversità.

Considerando che proprio per i principi dello sviluppo sostenibile che guardano al benessere delle generazioni future, è necessario ricordare che in Europa è vigente il principio di precauzione ed il principio di “chi inquina paga”.

Considerando che questa diffida nasce dalla consapevolezza che non è assolutamente necessario produrre e commercializzare semi ogm, nè materiale di propagazione geneticamente modificato (GMO) e che quello che ̀balza agli occhi è la mancanza di volontà di recepire i principi dell’economia circolare (sbandierati da una mano e defalcati dall’altra) poiché alla base di questa economia del futuro c’è la sostenibilità agricola, quindi la valorizzazione della biodiversità e del patrimonio territoriale .

Considerando che gli schemi dei decreti legge di cui all’oggetto sono in antitesi con i programmi Europei (Green deal o i principi del Farm to Fork ) e gli SDG’s ONU.

Considerando che proprio per difendere le biodiversità l’Europa ha un programma di incentivazione chiamato “Life” che è destinato a assegnare fondi per la protezione delle stesse.

Non potendo Voi, per tutte le ragioni esposte, ignorare né la presente né i pericoli evidenziati, pena la colpa grave e/o il dolo.

Evidenziando che la presente vale a tutti gli effetti quale precedente e messa in mora per ogni scongiurabile danno all’ecosistema ed alla salute umana in futuro ricollegabile a tale scongiurabile approvazione.

Si diffidano tutti i destinatari della presente a non approvare i decreti in oggetto così come confezionati.

La presente diffida è a disposizione di chiunque ne faccia richiesta per poter agire in tutte le sedi per la richiesta di risarcimento danni subiti e subendi.

Si richiede infine, con la presente, di ottenere risposta, come previsto in ambito amministrativo, entro e non oltre i termini di legge previsti.

QUESTA LETTERA È STATA INVIATA AI SEGUENTI INDIRIZZI DEI DECISORI POLITICI. INVITIAMO TUTTI I CITTADINI E LE ASSOCIAZIONI A INVIARLA A LORO VOLTA E A FARE PRESSIONE POLITICA CONTRO QUESTI DECRETI.

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LA STRATEGIA EUROPEA DI BIOECONOMIA: SCENARI, IMPATTI, TERRITORIALI, OPPORTUNITÀ E RISCHI

LA STRATEGIA EUROPEA DI BIOECONOMIA: SCENARI, IMPATTI, TERRITORIALI, OPPORTUNITÀ E RISCHI

IMPATTO SULLA BIODIVERSITÀ

Giovanni Damiani

Il destino delle società contemporanee è stato affidato all’economia e alla finanza, al liberismo globalizzato nell’illusione che questi fossero in grado di autoregolarsi, correggersi da errori e dare un futuro di progresso basato sulla previsione di una crescita continua.  La crisi ecologica, economica e sociale in corso e le disuguaglianze accresciutesi enormemente ci mostrano quanto questa previsione si sia rivelata errata e quanto tempo abbiamo perso per avviare una transizione programmata e poco traumatica. Adesso la transizione energetica ed ecologica, del vivere e del produrre, è sempre più difficile e a tratti si annuncia anche dolorosa. Si parla, oramai, di RESISTENZA, di ADATTAMENTO e di MITIGAZIONE mentre il tempo utile per agire sta per scadere e l’urgenza fattasi estrema non ci consente più di commettere errori. 

La conversione ecologica della società riguarda prioritariamente i settori dell’economia (con i suoi pesanti risvolti sociali),  del clima, della biodiversità.   Essa non può che fondarsi sull’uso di risorse naturali rinnovabili,  in sostituzione delle fonti fossili e su metodi,  stili di vita, tecnologie  e organizzazione sociale compatibili con l’ambiente, con la salute degli ecosistemi  a livello locale e globale.    

Importanza strategica in questa transizione va assegnata alle risorse biologiche, biomasse e derivati provenienti dalla fotosintesi.

L’Europa ha finalmente delineato la macrostruttura di una linea politica per una «bioeconomia sostenibile», «circolare» che intende «rafforzare il collegamento tra economia, società e ambiente».

Ma gli scenari finora delineati presentano rischi (anche di clamorosi fallimenti) e criticità su troppe questioni irrisolte o indefinite, nonché contrasti nei confronti di linee politiche avviate dalla stessa Unione Europea in altri settori tra cui il tema epocale della BIODIVERSITA’ che è intimamente legato a quello del CLIMA.

 Le specie che risultano estinte in Italia, negli anni più recenti, sono 6 sono (lo storione comune e quello ladano, la gru, la quaglia tridattila, il gobbo rugginoso; e un mammifero, il pipistrello rinolofo di Blasius).

Minacciate di estinzione in tempi probabilmente imminenti sono 161 (138 terrestri e 23 marine. Fonte: ISPRA)

Secondo la “lista rossa” dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) nel mondo 1.199 mammiferi (il 26% delle specie conosciute), 1957 anfibi (41%), 1.373 uccelli (13%) e 993 insetti (0,5%) sono minacciati di estinzione imminente.   Il 25% delle 625 specie di primati oggi conosciute, organismi a noi zoologicamente più vicini per la loro appartenenza alla famiglia deli Ominidi nella Classe dei Primati,  è in pericolo di estinzione.

Stiamo assistendo alla sesta estinzione di massa su scala globale a causa delle attività umane, tanto che nel 2000 è stato coniato il termine “antropocene” dal chimico e premio Nobel olandese Paul Crutzen, per designare l’era attuale in cui gli esseri umani hanno un impatto enorme su tutto l’ecosistema terrestre.

Tutti gli indicatori e gli indici esistenti, senza eccezione alcuna, mostrano una situazione di grave pericolo per la biodiversità e per gli habitat connessi.

Per gli agrosistemi la situazione è ancora peggiore: il numero delle estinzioni documentate di piante di interesse alimentare o come fonte di materie prime per prodotti pregiati, è pari al doppio della somma complessiva di quelle dei mammiferi, uccelli e anfibi. 

Quando parliamo di biodiversità dobbiamo tenere ben presente che esistono ampie lacune conoscitive, anche in Italia e in Europa, che riguardano le comunità biologiche del suolo, la vita acquatica, gli insetti, il mondo dei funghi e dei batteri, la loro autoecologia, le relazioni tra le componenti biotiche degli ecosistemi e tra loro e il mondo chimico-fisico.   Pertanto i dati già preoccupanti riportati in letteratura sono riferibili a una parte del biota, vale a dire a quello che conosciamo o pensiamo di conoscere ma la complessità dei sistemi naturali è talmente grande da sfuggire alle indagini scientifiche anche molto accurate.   Batteri e microfunghi, ad esempio, sono artefici ubiquitari della scomposizione finale della materia morta  o degli escreti dei viventi  (detrito organico).   Dobbiamo a questo regno biologico vastissimo e quasi negletto le reazioni dei processi catatabolici con i quali vengono scisse le molecole organiche complesse in molecole minerali più semplici e stabili, con conseguente liberazione di energia e messa a disposizione di nutrienti indispensabili per la vita delle piante. Si stima che al mondo esistano ameno 30 milioni di specie microbiche e noi ne sappiamo coltivare circa un migliaio e ne conosciamo appena qualche decina di migliaia.

L’esistenza del ciclo di materia sostenuto da un flusso di energia solare negli ecosistemi dipende completamente dall’efficienza dei microbi saprobici per cui la loro importanza è pari a quella della fotosintesi mentre noi animali negli ecosistemi siamo utili per la velocizzazione dei cicli biogeochimici e per la quantità di materia posta in circolo, ma non tecnicamente indispensabili. Potremmo auto-espellerci da Gaia e gli ecosistemi continuerebbero ad esistere, con lentezza dei cicli, in maniera semplificata, ma rigogliosamente e senza di noi.

A livello della comunità microbica cade anche il determinismo genetico, già caduto a livello di genoma non codificante e con la scoperta dell’epigenetica perché assume forte evidenza l’importanza dei mutevoli  fattori ambientali e delle contingenze nell’adattamento e nell’evoluzione ontogenetica, filogenetica e antropologica.  La scala dell’organizzazione della materia, con l’entropia negativa crescente, inoltre, ci mostra che non esiste l’ambiente.  E’ più corretto parlare di AMBIENTI, ECOSISTEMI, tra loro correlati ed interagenti, sempre in fase evolutiva e quindi, nel tempo, mai identici a sé stessi.   Questo non vale solo per il mosaico di ecosictemi visti “in orizzontale”, ma anche verticalmente.   Il DNA ha come ambiente la cellula che è il suo “ecosistema”; lo stesso vale per un mitocondrio che tra l’altro ha un proprio DNA; un organo non è un insieme di cellule….ma è  l’ambiente in cui si trovano e operano le cellule; un individuo non è un insieme di organi nè di cellule….ma è molto di più ed è inserito in un ecosistema che può essere naturale oppure semiurbano o urbano.   Noi stessi siamo l’ecosistema del nostro microbioma intestinale (e non solo), ove il numero dei batteri simbionti che influenzano il nostro essere è superiore a quello di tutte le altre cellule del nostro organismo.  Ai vari livelli di organizzazione della materia, lungo una scala verticale,  nei vari “ambienti”, si producono proprietà  e regole aggiuntive che non erano presenti nei livelli inferiori a minore contenuto di entropia negativa. Un ecosistema pertanto non è la somma di tutti i suoi componenti ma è molto di più grazie all’integrazione della infinità di ambienti che lo compongono. La biodiversità non è la quantità delle specie presenti in un ecosistema, ma è molto di più.

Il concetto di natura e di biodiversità si sono mostrati assai più complessi di quanto si riteneva solo 20 anni fa.  Oggi appare come un mosaico pluridimensionale che include il parametro tempo, di ambienti mai completamente chiusi ma comunicanti e interattivi, con proprio ordine interno caratterizzato da grande complessità, con vari livelli di organizzazione e varie modalità di comunicazione che garantisce l’integrazione e la resilienza.  Solo recentemente abbiamo scoperto che il livello epigenetico condiziona gli organismi, lo stato di salute, gli ecosistemi con meccanismi di complessità estrema e non conosciuti. Le mutazioni adattative dettate dai meccanismi epigenetici infatti, si sono rivelati assai più veloci di quelle genetiche interpretabili u scala di generazioni con Charles Darwin, Gregory Mendel, James Watson e Francis Crick e Jaques Monod. L’ENTROPIA DEI SISTEMI ECO-BIOLOGICI non si misura con la materia, bensì con l’ordine interno al sistema esaminato, vale a dire con il livello di complessità dato dalla ricchezza e caratteristiche delle sue componenti e dalle relazioni tra le parti (quindi dalla comunicazione attraverso segnali telemediatori acustici, visivi, olfattivi ed elettromagnetici) e con quelle con il biotopo.  L’ecosistema è un mosaico di ambienti. 

A livello attuale delle conoscenze le cause della perdita di biodiversità possono essere così individuate:

  • la perdita degli habitat (conversione agricola industriale dei suoli, edificazione, infrastrutture);
  • eccessivo sfruttamento delle risorse; 
  • frammentazione dello spazio minimo vitale per le specie;
  • inquinamento;
  • interferenze endocrine
  • interferenze nei segnali telemediatori di comunicazione (suoni, colori, forme, sostanze aerodisperse che costituiscono “odori”, campi elettromagnetici)

Su tutto agisce la crisi climatica che produce riscaldamento globale, colpisce gli ambienti acquatici e il suolo con siccità e incendi, consente l’espandersi di parassitosi, provoca scompensi nell’autoecologia, eventi estremi ricorrenti,  la comparsa di specie aliene nei nostri habitat.   Per quanto riguarda quest’ultime i dati del Mediterraneo sono illuminanti.

Complessivamente, ad oggi, nel Mediterraneo sono intruse 565 specie alloctone:

  • ? 132 appartenenti al regno vegetale
  • ?25 celenterati,              ?16 briozoi, 
  • ?141 molluschi,              ?59 anellidi,
  • ?60 crostacei,                 ?12 ascidiacei, 
  • ?120 pesci.

Di queste, 185 specie sono già intruse nei mari italiani

Fonte: Commission Internationale pour l’exploration Scientifique de la Mèditerranèe

Come si pone la Strategia europea sulla bioeconomy di fronte a questo quadro?

Il peccato originale del documento “Una bioeconomia sostenibile per l’Europa” risiede nel fatto che viene individuata come destinataria degli interventi, l’industria, e il rilancio della competitività.    Da questa premessa non possiamo aspettarci molto di buono sul tema della biodiversità.  A livello agroalimentare, per esempio, chi custodisce la variabilità genetica e ha consentito la sopravvivenza di cultivar diversificati, non è certo l’industria che invece persegue la standardizzazione dei prodotti, la massima uniformità possibile e rincorre criteri di vendita competitiva su aspetti estetici dei prodotti quali colore e dimensioni e il minor numero possibile di addetti. Custode della biodiversità è invece la costellazione di produttori agricoli, di aziende artigiane tradizionali che operano sulla base di antichi saperi e che sono detentori di genotipi, anche se questi non garantiscono loro crescita importante dei profitti. Le pratiche agricole di questo tipo sono il risultato di secoli o millenni di ricerca applicata, di sperimentazioni ancorchè empiriche mosse non solo dal desiderio di conoscenza o dal legame con a tradizione, ma dalla necessità di sopravvivenza e di adeguare il loro operato alle condizioni ecologiche locali. I cultivar sono stati trasmessi nel tempo tra le generazioni e le buone pratiche connesse per tradizione orale e  il tutto è stato storicamente  condiviso  in forma cooperativa e per tradizione orale mentre il miglioramento dei prodotti è avvenuto nel rispetto delle leggi della natura, con gradualità nel tempo.    La strategia europea non considera questo grande ed effettivo giacimento di saperi né i detentori diffusi di genotipi locali coltivati in situ, mentre rischia addirittura di minacciarne l’esistenza.  Infatti focalizza, tra gli strumenti attuativi, il tema della certificazione. Ma se la certificazione riguardasse solo i prodotti industriali a cui pare rivolgersi la strategia in forma esclusiva,  potremmo creare un mondo in cui ciò che è prodotto all’infuori della sfera industriale diviene marginale e perente (se va bene), residuale (e destinato all’estinzione, se va male), o addirittura illegale (se va come vorrebbe una certa industria che non ama di certo la concorrenza, anche dei “piccoli” produttori).   Pensate cosa rischierebbe l’Italia dal punto di vista della cultura culinaria, dei prodotti tipici locali di difficile certificazione, del paesaggio agrario.  L’importanza per l’umanità della conservazione dei genotipi d’interesse agronomico non è nuova: il botanico  Nikolai Vavilov, tra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso raccolse semi in 65 Paesi e fondò l’istituto che oggi è ancora attivo e conserva 350 mila specie a San Pietroburgo. Resistette con i suoi collaboratori all’assedio nazista senza toccare un solo seme mentre morivano di fame ma fu poi eliminato da Stalin. Oggi l’Istituto  Svalbard Global Seed Vault in Norvegia conserva in un bunker tra i ghiacci 7 milioni di campioni di colture da tutto il mondo. Ma quei ghiacci vanno sciogendosi. In ogni caso è solo questa la salvezza della biodiversità agronomica? Non è meglio rivolgersi alla terra, a valorizzare l’opera degli agricoltori?

Inoltre, una bioeconomia dovrebbe introdurre quanti più possibili meccanismi di cooperazione piuttosto che competitività e, per giunta, misurata come oggi avviene con il P.I.L. che notoriamente include esclusivamente gli aspetti quantitativi dei mercati mentre ignora completamente indicatori di benessere individuale e sociale  nonchè dell’ambiente . La cooperazione, le simbiosi, sono strategie vincenti in natura e nel sociale (Georgeschu Roegen).

La Strategia Europea non fa accenno alla necessità di ridurre i consumi attraverso beni durevoli né considera il fine vita dei prodotti e il loro destino rispettosi dei cicli ecologici. Per quanto riguarda la riduzione dei consumi  il rischio più grande è quello del consumo di suolo.  Se si pensa di sostituire l’impiego dei combustibili fossili, soprattutto per autotrazione, con biofluel (benzine ottenute dalla trans-esterificazione degli oli vegetali,  biogas e biocarburanti in genere)  senza ridurre drasticamente i consumi attuali, occorreranno immense distese di monocolture industriali a solo scopo energetico e il sacrificio di ambienti ed ecosistemi, con connesso incremento della perdita di biodiversità.  Procedere poi al trattamento dei rifiuti organici dell’era “bio” in impianti di gassificazione è  di scarsa efficienza termodinamica, comporta l’introduzione di una complicazione tecnologica inutile rispetto , ad es., al compostaggio aerobico, nonché impiego di risorse  e fornitura di prodotti climalteranti.  

Non prende in considerazione la necessità di ridurre la nostra insostenibile impronta ecologica, possibile  con l’avvio di un processo di abbandono della proprietà privata dei beni per transitare alla fruizione di «servizi» (Paul Hawken, Amory Lovins, L. Hunter Lovins).   Perché possedere in proprio un’automobile, un trattore, quando è possibile che restino in proprietà del produttore e che sia possibile averli a disposizione solo quando serve, a prezzi bassi, pagando solo le ore di uso e quindi il solo servizio reso?  Ciò farebbe cessare l’obsolescenza programmata dei beni costringendo il produttore a progettarli per il massimo della durabilità,  stroncherebbe il consumismo, costringerebbe a realizzare prodotti più performanti e porterebbe ad un’evoluzione tecnologica, ottimizzazione e prezzi accessibili, esattamente com’è avvenuto nel campo delle fotocopiatrici.

L’unità di analisi della Strategia continua a non essere costituita dal benessere degli individui e del complesso della società mentre in bioeconomia vanno valutati insieme a questo le relazioni fra i sistemi biologici ai vari livelli con quelli economico-sociali (G. Bateson).

In economia, a partire da quella famigliare, è decisivo conoscere e tenere sotto controllo l’ammontare del capitale, stimare le rendite, controllare le uscite, avere contezza, in definitiva,  della consistenza economica e del suo trend.  Fare diversamente comporta il rischio di fare prelievi eccessivi e di staccare assegni a vuoto con le conseguenze del caso.  Inoltre viene considerato il merito delle spese in relazione al benessere e alla soddisfazione che possono comportare.  Nella strategia della bioeconomia invece non si pone al centro la quantificazione e il monitoraggio dei flussi di prelievo dal mondo biologico per commisurare l’entità dei prelievi delle risorse alle capacità biogeniche, vale a dire di rigenerazione negli ecosistemi nei tempi dovuti.  Eppure ciò dovrebbe essere alla base della sostenibilità, assieme all’attenzione di prelevare ciò che è la “rendita” possibile dagli ecosistemi senza distruggere il capitale che quella rendita produce.  Intuizioni in tal senso sono oramai datate (l’economista Herman Daly e formulò nel 1972) ma non le vediamo trasposte nella strategia sulla bioeconomy).   La misurazione della “competitività” effettuata col P.I.L.  nulla dice dei riflessi dell’economia sul benessere dei cittadini.

L’Unione Europea produce documenti ricchi di principi generali e condivisibili  ed enfatizza l’integrazione fra tutti i settori d’intervento. Purtroppo in fase di applicazione tali principi spesso si rilevano generici e arrivano persino a produrre l’effetto contrario rispetto alle finalità originarie per cui erano stati postulati.  Un esempio è l’Agenda 2030, stilata in sede delle Nazioni Unite e fatta propria dall’Unione Europea. L’importante il documento determina gli impegni sullo sviluppo sostenibile che dovranno essere realizzati entro il 2030, individuando 17 obiettivi globali (SDGs – Sustainable Development Goals) e 169 target, prevede, d’interesse per il nostro discorso sulla biodiversità,  che:

  • L’agricoltura (Obiettivo 2) ha un ruolo di primo piano all’interno di qualsiasi prospettiva di sviluppo sostenibile, dal momento che è un settore intrinsecamente legato a questioni quali l’occupazione, l’alimentazione, l’aria, i cambiamenti climatici, le risorse idriche, il suolo e la biodiversità;  
  • Assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni” (obiettivo 7);
  • Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti (obiettivo 8).        
  • Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo (obiettivo 12).    
  • Promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico (obiettivo 13), 
  • Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile (obiettivo 14).   .   
  • Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre, gestire sostenibilmente le foreste, contrastare la desertificazione, arrestare e far retrocedere il degrado del terreno e fermare la perdita di diversità biologica (obiettivo 15).

L’Unione però dispone incentivazioni statali all’impego delle biomasse legnose ad uso energetico-industriale che oltre a contraddire i predetti principi perché apre ai disboscamenti,  si pone in contrasto con numerose direttive, dalla Direttiva Habitat 92/42/CEE  passando per la Framework Water Directive (FWD 60/2000/CE) che istituisce un quadro europeo per la difesa dell’acqua, ancorato molto alla difesa e al ripristino della biodiversità degli ambienti acquatici)  alla 2007/60/CE  concernente la difesa dalle alluvioni.  Il disboscamento contrasta inoltre con gli impegni sul clima assunti con gli accordi nel corso della  COP 21 di Parigi nel dicembre 2015.

Il rischio della Strategia sulla bioeconomy, pertanto, è che si possa procedere alla sostituzione dei combustibili fossili per produrre energia con le biomasse legnose, cellulosiche e organiche in genere.

Questo rischio va monitorato e scongiurato per i seguenti motivi:

Bruciare massivamente legno o materia organica, non è neutrale rispetto alle emissioni di carbonio in atmosfera, come si vuol far credere da parte di settori che lucrano su queste attività, appoggiati da qualche accademico, ma è, al contrario, fortemente aggravante della crisi climatica .  L’anidride carbonica emessa, infatti, non è solo quella che deriva dal legno combusto e quindi dal carbonio accumulato dall’albero attraverso la fotosintesi. Vanno considerate le emissioni prodotte nelle fasi del cantiere forestale per l‘approvvigionamento delle biomasse: consumi di carburante per le macchine operatrici, per l’apertura di piste nel bosco, per il taglio dei tronchi e dei rami, per l’accatastamento, per l’esbosco, trasporto, per il carico su camion fino alla nave o ferrovia dirette alla centrale elettrica, per lo scarico, per la cippatura e riduzione i pellet… Se solo si analizza il bilancio complessivo delle operazioni di filiera già si vede che la presunta neutralità non esiste, ma c’è di più. L’uso energetico delle biomasse :

? richiede approvvigionamento notevole di materia prima perché il legno ha un basso potere calorifico;

?  non considera il fattore tempo di rinnovazione del bosco e il tempo di perdita di funzione: mentre la combustione aggrava immediatamente la crisi climatica, alberi piantati ex novo dovranno crescere e passeranno decenni prima che possano svolgere le stesse funzioni di quelli distrutti (ecosistemiche e di assorbimento della CO2) e tutto questo tempo invece per fronteggiare la crisi climatica non c’è;

?  non considera, per le biomasse legnose, che buona parte del carbonio non si trova solo nel tronco e nei rami ma anche nel suolo: la lettiera e l’humus assorbono carbonio fino ad 8 volte più che il legno e lo immobilizzano per tempi lunghissimi;

?  non considera la quota, rilevante, di carbonio esalato dalla respirazione delle radici dell’albero, che non interessa l’aria ma viene assorbito nel sottosuolo perché si discioglie come acido carbonico nell’acqua  e questo acido debole, nell’interazione con le rocce, regola il ciclo dell’acqua dal punto di vista quantitativo e qualitativo;

?Sottrae carbonio ai suoli ove costituisce fattore di fertilità, per immetterlo in atmosfera ove è già in  concentrazioni eccedenti i limiti di tolleranza dell’ecosistema globale.  Così il suolo “muore di fame” e  l’atmosfera  “di indigestione”.

Inoltre la combustione delle biomasse legnose produce inquinamento atmosferico soprattutto da PM10 e da PM2,5 ,  più di qualsiasi altra fonte producendo migliaia di morti premature/anno.

Una strategia sulla bioeconomy dovrebbe pertanto, per coerenza e affidabiltà, intanto revocare gli incentivi statali alle biomasse e rinunciare soprattutto all’utilizzo energetico industriale del legno  e chiarire, senza possibilità di equivoci,  che il suo uso va ammesso e incentivato per tutte le finalità nobili, in sostituzione della plastica, come materiale da opera per cantieristica navale, infissi, pavimenti, tetti, case, strumenti musicali…  Basterebbe scrivere che il legno va utilizzato in qualsiasi modo purchè il carbonio in esso contenuto resti il più possibile allo stato solido.  Sostenibilità significa rispettare il patrimonio arboreo esistente e incrementarlo a partire dagli ambienti urbani e periurbani. E’ possibile, secondo calcoli attendibili, lasciare indisturbato alla libera evoluzione naturale almeno il 50% del patrimonio forestale italiano perchè le foreste non sono solo serbatoi di legname, ma svolgono una molteplicità di funzioni sul clima, sul ciclo dell’acqua, sulla qualità dell’aria e sono scrigno di biodiversità.   Il restante 50% può fornire utilità se gestito con criteri di selvicoltura ecologica, nel rispetto delle funzioni ecosistemiche anche potenziali, della biodiversità, del paesaggio.

Una bioeconomia effettiva, in conclusione, non può basarsi sull’uso energetico delle biomasse siano esse solide, liquide o gassose. Intraprendere una strada simile significa tra l’altro un ritorno al passato, al medio-evo quando c’era solo il legno per riscaldarsi, cuocere i mattoni, lavorare il ferro e il vetro. Significa ancora  e distrarre l’attenzione, gli sforzi, i finanziamenti e gli interventi dalla rivoluzione energetica del futuro che bussa alle porte e che è basata sull’impiego dell’idrogeno  quale vettore energetico, prodotto per elettrolisi  dell’acqua da fonti pulite, appropriate e rinnovabili.

Distruzione ambientale del Lago Santo di Cembra

Distruzione ambientale del Lago Santo di Cembra

di Franco Pedrotti

Il Lago Santo di Cembra (Trento) si trova sui rilievi montuosi del versante orografico di destra della Val di Cembra, in una conca di esarazione glaciale a m 1194 di quota, formata di porfidi quarziferi.  Le dimensioni sono di 267 x 167 m, la superficie di 32.000 mq, la profondità di m 15.

        Le rive del lago costituiscono un ambiente ecotonale, lungo il quale le specie della flora (α biodiversità,) e le differenti associazioni vegetali (β biodiversità) si dispongono secondo un gradiente ecologico che va dalla periferia verso il centro del lago (γ biodiversità).

        Il modello vegetazionale del Lago Santo di Cembra è costituito da una fascia esterna di praterie umide (Junco-Molinietum); segue la fascia lacustre vera e propria con il magnocariceto di carice rigonfia (Caricetum rostratae) e il canneto (Phragmitetum australis) . Nella fascia esterna del canneto è presente il cipereto di cipero giallastro (Cyperetum flavescentis). Il cipereto di cipero giallastro è un habitat prioritario della UE, ove è descritto come segue: Acque stagnanti, da oligotrofe a mesotrofe, con vegetazione dei Littorelletea uniflorae e/o degli Isoëto-Nanojuncetea sottotipo 22.12 x 22.32; 13.2.1 Nanocyperion flavescentis. Questo tipo di habitat prioritario, molto raro in tutta Europa e – nella fattispecie – anche in Trentino, conferisce un grande valore ambientale al biotopo rappresentato dal Lago Santo di Cembra.

        Il Comune di Cembra-Lisignago ha fatto eseguire un progetto di valorizzazione turistico ambientale del Lago Santo che non ha nessun fondamento di carattere ecologico ed è totalmente privo di riferimenti relativi alla biodiversità (α biodiversità, β biodiversità e γ biodiversità).

        Di fronte a un progetto così dannoso per il lago, sono state messe in atto varie iniziative per la sua salvezza sia da parte della popolazione di Cembra che delle associazioni ambientaliste locali e nazionali. Tutte le richieste al Comune di Cembra-Lisignago e alla Provincia Autonoma di Trento non sono servite a nulla. Quasi per ironia della sorte, i lavori sono iniziati proprio nei giorni in cui veniva celebrata in tutto il mondo la giornata della biodiversità, 22 maggio 2020.

        I lavori eseguiti fino ad oggi hanno portato alla completa distruzione di tutta la fascia di praterie umide del lago, con spargimento di ghiaia e terriccio, che hanno fatto scomparire tutta la vegetazione, compresa quella dell’Habitat Prioritario prima citato, come risulta dalle fotografie allegate.

Il Lago Santo di Cembra prima degli interventi (foto V. Valentini, maggio 2020).

Le rive del lago dopo gli interventi effettuati nella fascia delle praterie umide esterne al lago; la fascia di colore rosso indica la zona ove era presente l’Habitat Prioritario, ora completamente distrutto (foto V. Valentini, maggio 2020).

Il Lago Santo di Cembra ridotto a “piscina” (foto V. Valentini, maggio 2020).

Il Lago Santo di Cembra: un habitat prioritario trasformato in una piscina per turisti

Il Lago Santo di Cembra: un habitat prioritario trasformato in una piscina per turisti

Trento, 16 maggio 2020 – L’associazione GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane chiede lo stop immediato dei lavori altamente impattanti che stanno distruggendo la vegetazione che circonda il Lago Santo di Cembra, prezioso ecosistema che dovrebbe rientrare tra gli habitat prioritari del Trentino e come tale essere protetto. Il lago è infatti un esempio raro e vulnerabile di habitat con acque stagnanti, da oligotrofe a mesotrofe, con vegetazione dei Littorelletea uniflorae e/o degli Isoëto-Nanojuncetea e Nanocyperion flavescentis, come segnalato alle istituzioni nell’autunno 2019 dal professor Franco Pedrotti, esperto di botanica di fama internazionale. Una tipologia di habitat rara sia in Trentino sia in Europa e che rientra tra quelli indicati come meritevoli di protezione dalla Direttiva Habitat della UE: il lago costituisce quindi un biotopo di grande valore ambientale.

La bellezza di questo lago, tale da diventare il soggetto di alcuni acquerelli di Albrecht Dürer, sta venendo devastata da un progetto definito di “Valorizzazione turistico ambientale” approvato dal Comune di Cembra Lignano nonostante la popolazione locale si fosse mobilitata con una raccolta firme – poi consegnata al Sindaco e al Presidente della Provincia – e a dispetto della presa di posizione contraria di associazioni come Italia Nostra Trentino. Un progetto altamente impattante che mira a trasformare il lago in una spiaggia per turisti, come se un lago alpino potesse essere trattato alla stregua di una piscina.

Il progetto prevede interventi sulla spiaggia nord e nord-est con innalzamento della spiaggia, che altera inaccettabilmente la forma e il sistema ecologico del lago; la creazione di nuovi accessi; un’area attrezzata con panche, tavoli e addirittura giochi, come se si trattasse di un parco urbano; una passerella di legno; posa di massi di porfido lungo la sponda; pannelli informativi; illuminazione notturna; taglio del filare di abeti rossi posti a nord del lago; successiva “rinaturalizzazione” di alcune zone, ma con specie diverse da quelle attualmente presenti; e l’apertura di un canale di scarico. Il tutto accompagnato dalla creazione di un brand apposito di promozione turistica.

Un intervento pesantissimo che provocherebbe un’alterazione molto grave dell’ambiente del Lago Santo di Cembra, che ancora presenta un alto grado di naturalità, con eliminazione completa della vegetazione in vaste zone, regressione e degenerazione della vegetazione in altre e stravolgimento del paesaggio. La realizzazione degli impianti, cominciata a fine aprile, porterebbe a un’antropizzazione completa del bacino lacustre.

Se lo scopo è quello della promozione turistica della zona, avrebbe maggiore senso conservarne la naturalità che la rende preziosa, in un’ottica di sviluppo sostenibile che non elimini gli elementi attrattivi naturali sostituendoli con elementi artificiali e costosi che i turisti possono trovare anche nelle zone urbane di provenienza.

In un’epoca in cui l’opinione pubblica diventa via via più sensibile alla protezione dell’ambiente, le istituzioni dovrebbero puntare su una reale valorizzazione – che non può che essere conservativa – delle tante bellezze naturali del Trentino-Alto Adige, anziché sdegnare i cittadini di tutta Italia con il continuo sfregio delle stesse.