da wp_10533428 | 13 Set, 2021 | Foreste, TUFF e SFN
Articolo pubblicato su L’Italia Forestale e Montana / Italian Journal of Forest and Mountain Environments 75 (2): 69-81, 2020 © 2020 Accademia Italiana di Scienze Forestali
di ALESSANDRO BOTTACCI
Direttore del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Professore a contratto di “Nature Conservation”, School of Biosciences & Veterinary Medicine, Plant Diversity and Ecosystems Management unit, University of Camerino; via Pontoni, 5 – 62032 Camerino (MC), Italy
Le foreste sono ormai universalmente considerate come sistemi complessi adattativi. La capacità adattativa di questi ecosistemi è direttamente proporzionale alla loro resistenza, resilienza e adattabilità/plasticità. Questi attributi sono, a loro volta, funzione del grado di biocomplessità (compositiva, strutturale e funzionale/relazionale) raggiunto dal sistema stesso.
Perchè una foresta possa raggiungere un elevato livello di complessità è necessario che siano assicurati un adeguato spazio fisico tridimensionale e un intervallo di tempo molto lungo.
Le foreste gestite sono spesso limitate nella superficie (a causa della frammentazione fisica o ecologica) e nell’altezza (a causa di tagli troppo precoci e intensi, che non permettono al piano delle chiome di occupare tutto il biospazio a disposizione); questo le rende più semplificate e quindi meno resilienti. Per quanto riguarda il tempo, frequentemente non si tiene conto della diversità tra tempo dell’Uomo e tempo delle foreste, tentando di accelerarne, in modo innaturale, la crescita e la successione delle fasi strutturali. La velocità è nemica della complessità, specialmente di quella relazionale, sulla quale si basa la capacità delle foreste di rispondere ai disturbi esterni.
Il cambiamento globale e le nuove sfide per il futuro del Pianeta richiedono un deciso cambiamento dei criteri e dei metodi di gestione forestale, considerando anche il grande valore degli ecosistemi lasciati alla libera evoluzione naturale.
Parole chiave: sistemi complessi adattativi; resilienza; biocomplessità forestale; foreste ad evoluzione naturale; spazio e tempo.
Citazione: Bottacci A., 2020 – Lo spazio e il temo per le foreste resilienti. L’Italia Forestale e Montana, 75 (2): 69-81. https://doi.org/10.4129/ifm.2020.2.02
INTRODUZIONE
La foresta è universalmente considerata un sistema biologico complesso autopoietico adattativo (Ciancio e Nocentini, 1996; Puettmann et al., 2009; Mes sier e Puettmann, 2011; Nocentini, 2011), cioè un sistema capace di autogovernarsi nel tempo attraverso le reciproche interazioni dei suoi componenti e di adattarsi alla variazione degli input ambientali esterni conservando la propria funzionalità (Puettman, 2014).
Le foreste seguono un ordine interno naturale, che possiamo definire un “ordine spontaneo” (Clauser, 2003), secondo il quale si accrescono e si sviluppano per stadi successivi, adattandosi all’ambiente nel quale si trovano. Si tratta di sistemi interattivi e compositi, costituiti da molti elementi diversi interagenti tra loro secondo i principi della teoria fisica della Criticità autorganizzata (Piovesan e Schirone, 1995).
Esse seguono sempre il percorso a minor dispendio energetico complessivo, passando da strutture più semplici a strutture più complesse, da uno stato metastabile a un altro, in conseguenza di processi innescati da eventi anche di piccola entità. Questo non avviene in modo totalmente lineare e prevedibile, ma secondo cicli adattativi (crescita, conservazione, collasso e rilascio, riorganizzazione) su diverse scale spaziali e temporali secondo i processi tipici della Panarchia (Gunderson e Holling, 2002; Allen et al., 2014).
Non si raggiunge mai un vero e proprio equilibrio ma il sistema si muove sempre sul confine tra disordine (caos, χάος) e ordine (cosmos, κόσμος), per rimanendo nello stadio dinamico della complessità (Messier e Puettmann, 2011).
La complessità diviene pertanto una condizione necessaria per limitare il rischio di cadere in quelle che Carpenter e Brock (2008) hanno definito “trappola della povertà”, quando il sistema è talmente semplificato da non avere nessuna possibilità di recuperare con le sue sole forze, e “trappola della rigidità”, quando il sistema è totalmente ordinato e diviene pertanto una struttura rigida e statica. In entrambe le condizioni il dinamismo del sistema si blocca. È quindi fondamentale che l’approccio alla gestione degli ecosistemi forestali si basi sui principi della teoria dei sistemi complessi, tenendo conto di tutte le componenti – e non solo della componente arborea -, delle numerosissime interazioni esistenti tra queste e della capacità di rispondere ai disturbi esterni. Nella gestione forestale la semplificazione non è ammessa. Una visione riduzionistica concettuale è fuorviante e foriera di gravi errori (Ciancio e Nocentini, 1996; 2003; Simard e Durall, 2004).
Possiamo considerare la complessità di un ecosistema forestale a tre livelli diversi ma necessariamente integrati tra loro:
− Complessità compositiva, legata soprattutto al numero di specie, animali e vegetali, presenti. Questa ricchezza è massima negli ecosistemi forestali intatti e ne determina il grande valore ambientale (Watson et al., 2018);
− Complessità strutturale, legata alla conformazione fisica della foresta (tipo di occupazione dello spazio, distribuzione dei volumi, rapporti allometrici delle componenti, ecc.). La complessità strutturale influisce positivamente su vari aspetti dell’ecosistema (biodiversità, resilienza, adattabilità, ecc.) (Franklin et al., 2004; Stiers et al., 2018);
− Complessità relazionale/funzionale, legata alla rete di relazioni tra le varie componenti del sistema e tra di esse e l’ambiente nel quale sono inserite. Possiamo includere in questa complessità anche la varietà di nicchie ecologiche presenti (Sabatini et al., 2010). La complessità relazionale è talmente varia e piena di retroazioni da potersi considerare come la componente più difficilmente misurabile o valutabile di un ecosistema (Mayr, 1988). Essa può essere anche espressa in termini di posizionamento dei vari componenti organici all’interno della complessa rete trofica. Questo posiziona mento non è casuale, ma segue un ordine preciso, misurato da quella che viene definita coerenza trofica, che, a sua volta, rende le reti più stabili (Johnson et al., 2014).
A questo proposito è importante anche segnalare i fondamentali studi sulla rete di ectomicorrize che, nel suolo, collega gli apparati radicali di una foresta, fungendo da sistema di comunicazione e di scambio di carbonio e di altre sostanze nutritive (Clemmensen et al., 2013).
Gli studi sulle foreste indisturbate (old growth forests) hanno permesso di comprendere, in modo più preciso e ampio, la biocomplessità naturale, i processi ad essa collegati, nonché i meccanismi che sottendono all’evoluzione dei sistemi forestali (Faliński, 1986; Faliński, 1988; Blasi et al., 2010; Stiers et al., 2018).
Uno dei risultati fondamentali di questi studi è aver compreso la stretta relazione tra biocomplessità e resistenza, resilienza e adattabilità degli ecosistemi forestali.
Aldilà delle molte definizioni esistenti, ai fini del presente lavoro ritengo che queste tre caratteristiche possano essere riassunte nel seguente modo:
− Resistenza: è la capacità di un ecosistema di mantenere il proprio equilibrio strutturale e funzionale di fronte ad un disturbo esterno.
− Resilienza: è la capacità di recuperare il proprio equilibrio qualora questo venga alterato da un disturbo esterno o anche “la capacità di tollerare disturbi senza collassare in uno stato qualitativamente diverso” (Holling, 1973).
− Adattabilità/plasticità: è la capacità di modificare la propria struttura in conseguenza di un cambiamento ambientale permanente senza perdere la propria funzionalità.
La stabilità di un ecosistema è strettamente legata alla sua capacità adattativa, a sua volta dipendente della sua biocomplessità (Colwell, 1998; Michener et al., 2001; Bottacci, 2014; Bottacci, 2018a). Si deve assolutamente tenere conto di questo assunto quando si vogliano conservare e gestire foreste in modo da tutelarne l’evoluzione e la stabilità dinamica.
Per favorire il raggiungimento e la conservazione di alti livelli di complessità degli ecosistemi forestali, dobbiamo considerare che essa è funzione di due fattori fondamentali: lo spazio ed il tempo (Clauser, 1991). Non tenendo conto di questi due fattori, come avviene troppo spesso in una selvicoltura a preminente finalità economica, si rischia di alterare in modo sostanziale la foresta, inficiandone il futuro, al solo scopo di massimizzare un ricavo attuale, oltretutto relativamente basso in relazione ai costi ambientali alti, come avviene nel caso della forma di governo a ceduo (Clauser, 1989).
LO SPAZIO
Lo spazio è un parametro fondamentale per le foreste. Prima che l’azione antropica riducesse in modo drastico la superficie forestale del nostro Pianeta, le foreste occupavano quasi la metà delle terre emerse, formando, in molti casi, estensioni di milioni di ettari senza soluzione di continuità. Ancora oggi questa riduzione non si arresta, continuando ad interessare, in modo drammaticamente preoccupante, anche le foreste primarie intatte (Potapov et al., 2017). Lo spazio è indispensabile perché si possa sviluppare pienamente la complessità sotto forma di mosaico di fasi del ciclo strutturale (rinnovazione, affermazione, esclusione, maturazione, diversificazione, crollo, ecc.). In questo modo, su una adeguata estensione, la foresta può raggiungere e mantenere uno stato nel quale i disturbi, pur presenti, hanno un’influenza limitata sul cambiamento della struttura generale e, anzi, aiutano a mantenere lo stato di complessità. Solo con una adeguata superficie, al di sopra di quella che si può definire la “superficie minima vitale della foresta”, si può avere l’insieme di piccoli e continui cambiamenti che interessano i componenti di quella data fitocenosi e dei suoi vari strati, che costituisco l’articolato processo della fluttuazione, ampliamente studiato da Faliński nella foresta primeva di Białowieża (Faliński, 1986; Faliński, 1988; Pedrotti, 2007).
La ricerca dei valori di questo parametro è ancora relativamente scarsa, nonostante si tratti di un argomento molto stimolante e basilare per la conservazione e la gestione delle foreste.
Harris (1984), nel suo fondamentale testo sulla frammentazione forestale, colloca tra 2 e 20 ha la soglia minima al di sotto della quale il sistema perde di efficienza.
Uno dei principi fondamentali della Biologia della Conservazione, contenuto nel 3° postulato di Soulé (1986), è il rapporto tra le dimensioni di una comunità e la sua possibilità di sopravvivenza: riducendo la superficie di un popolamento – ed io direi ancora di più il volume da essa occupato – diminuisce la sua vitalità e resilienza (Bellarosa et al., 1991).
Zacharias e Brandes (1989), citati in Bellarosa et al. (1991), hanno evidenziato una relazione lineare tra la superficie di boschetti isolati del Querco-Fagetea in Germania e la frequenza delle specie più rare. Questi autori hanno rilevato che, per avere la saturazione di tutte le specie, comprese le più rare, un popolamento doveva ricoprire una superficie continua non inferiore a 500 ha.
La riduzione delle superfici forestali, oltretutto, innesca le tipiche problematiche della frammentazione degli habitat (Diamond, 1975; Crooks e Sanjayan, 2006). In caso di superfici ridotte, la percentuale di area marginale (più disturbata) aumenta, rispetto a quella occupata dalla core area, agendo negativamente sulle varie complessità, specialmente sulla complessità relazionale.
Per una corretta valutazione dell’influenza dello spazio sulla stabilità degli ecosistemi forestali è fondamentale tenere conto che lo sviluppo strutturale delle foreste non è solo quello bidimensionale della superficie, ma quello tridimensionale del volume. Le foreste, rispetto agli altri ecosistemi terrestri naturali, tendono ad occupare molto più spazio anche in senso verticale, sia verso l’alto, con le chiome che possono arrivare fino ad oltre cento metri, che nel sottosuolo, dove le radici si possono approfondire di molti metri (ad es. fino a 7 m di profondità per le radici strutturali delle foreste tropicali) e rappresentare una notevole frazione della biomassa totale (circa il 20%) (Brunner et al., 2004; Crown, 2005; Galvagni et al., 2006; Lasserre et al., 2006).
Per questo possiamo affermare che le foreste sono soprattutto strutture verticali.
A questo proposito forniscono un’utile informazione gli studi sulle strutture forestali basati su un approccio allometrico, nei quali si mostra che l’occupazione dello spazio tridimensionale non è casuale ma segue un model lo basato sulla legge di potenza, che sottende un comportamento frattale. L’aumento dell’altezza del popolamento (nel caso specifico dell’altezza tipica degli alberi più alti), determina un aumento proporzionale del volume della foresta per unità di superficie. Al fine di massimizzare l’energia solare utilizzata, le foglie devono riempire quanto più possibile questo volume e lo fanno seguendo proprio una strutturazione frattale sia orizzontale che verticale (West et al., 2009; Enquist et al., 2009; Simini et al., 2010; Anfodillo et al., 2013; Sellan et al., 2017). In conseguenza di ciò la produttività di una foresta è funzione anche dello spazio verticale occupato.
Lo sviluppo della foresta nello spazio verticale, che possiamo anche defi nire “spessore ecologico” o “biospazio”, ha anche un valore ecologico. Esso determina gradienti di microclima che vengono occupati da specie e da comunità di specie differenti, contribuendo così ad aumentare la biocomplessità del sistema (Ishii et al., 2004; Nadkarni, 2010). Già molti anni fa Mac Arthur e Mac Arthur (1961) avevano evidenziato una relazione positiva tra altezza del piano delle chiome e ricchezza di specie di uccelli, attribuendola alla presenza di una maggiore disponibilità di nicchie ecologiche. Più recentemente Roll et al. (2015) hanno confermato questa relazione per tutti i vertebrati ed in parti colare per gli anfibi.
Cazzolla et al. (2017) hanno trovato una correlazione significativa tra la ricchezza di specie di piante vascolari e l’altezza media del piano delle chiome (considerato come indicatore del volume) sia a livello globale che macro climatico.
L’intervento umano altera questa stratificazione verticale di habitat e riduce la biodiversità del popolamento, soprattutto diminuendo l’altezza del piano delle chiome e semplificandone la struttura (Brokaw e Lent, 1999). Questo suggerisce l’opportunità di una maggiore attenzione al biospazio negli studi ecologici e nella pianificazione e gestione dei siti naturali. Le foreste intatte, infatti, mostrano come un ampio spessore ecologico (biospazio) favorisca la diversità verticale e contribuisca alla biocomplessità totale dell’ecosistema e, di conseguenza , alla sua funzionalità.
IL TEMPO
Il tempo è stato definito da Clauser (1991) come la quarta dimensione del bosco ed è una dimensione troppo spesso sottovalutata.
Un approccio semplicistico alle foreste tende a mettere in correlazione il tempo solo con l’incremento di volume degli alberi, dando addirittura un significato colturale di maturità alla culminazione dell’incremento stesso, nelle sue varie forme (corrente, medio, percentuale), culminazione che invece avviene sempre ad un’età del bosco molto bassa.
Occorre perciò chiarire che il tempo delle foreste non è il tempo dell’Uomo. Si tratta di due ordini di grandezza diversi. Considerare i tempi della foresta con il riferimento temporale dell’Uomo è uno degli errori fondamentali che hanno commesso e commettono molti forestali.
La lentezza – relativamente ai parametri umani – è la legge per la foresta (Wohlleben, 2016) ed è fondamentale tenerne conto.
Addirittura è stato evidenziato che proprio le piante ad accrescimento più lento sono quelle destinate a vivere più a lungo (Piovesan et al., 2019a; Piovesan et al., 2019b)
Le foreste hanno bisogno di tempo per poter evolvere passando da una fase strutturale all’altra (Leibundgut, 1978), fino allo stadio più evoluto possibile in quel luogo e in quel momento.
Raggiunto questo stadio le variazioni strutturali sono ancora più lente e indotte da disturbi naturali a bassa intensità (crollo di alberi o gruppi di alberi) o a grande intensità (tempesta di vento, incendio naturale, attacco parassita rio, frana, valanga, ecc.). In entrambi i casi, comunque, con tempi di ritorno, generalmente, molto lunghi. Questi disturbi sono importanti per la rinnovazione dell’ecosistema e per il mantenimento di una parte della sua complessità (Yamamoto, 2000).
Oltretutto la foresta non segue il ciclo vitale dei suoi componenti principali: gli alberi. Questi nascono, crescono, invecchiano e muoiono, rimanendo soggetti alle leggi del tempo, la foresta è invece soggetta “a una agitazione eterna” (Stevens, 1990 in Motta, 2018).
Il tempo sottende anche alla biocomplessità strutturale di una foresta. I parametri di altezza e volume sono evidentemente legati al tempo, ma anche lo sviluppo degli apparati radicali o la maturazione sessuale dei singoli componenti. La strutturazione e l’occupazione del biospazio (verticale, orizzontale, sopra e dentro al suolo) sono, come già ricordato, processi fondamentali che la foresta conduce secondo il modello della criticità autorganizzata. Questi processi organizzativi svolgono una funzione sintropica, cioè di bilanciamento della entropia (Schirone, in stampa). Come nel caso dell’entropia (secondo principio della termodinamica), anche la sintropia è funzione del tempo: col trascorrere del tempo, infatti, l’ecosistema aumenta la propria organizzazione funzionale e strutturale, tendendo spontaneamente verso una condizione metastabile, vicina al punto critico (Solé et al., 2002; Solé e Bascompte, 2006).
Il tempo influisce anche su una componente fondamentale dell’ecosistema forestale: il suolo. Il suolo è il frutto di interazioni tra componente organica, componente inorganica e clima, che a loro volta sono funzione del tempo. Un suolo forestale, per raggiungere stadi evoluti, richiede molti anni (talvolta secoli). Recenti studi hanno mostrato l’importanza, per la funzionalità e per la produttività degli ecosistemi forestali, della complessa rete di simbiosi che si formano nel suolo tra gli apici radicali delle piante arboree e le ectomicorrize (ECM) (Simard, 2009; 2018; Steidinger et al., 2019). Lo sviluppo di questa rete è legato alla presenza di alberi vetusti (detti alberi madre) e di un suolo evoluto, fattori questi che sono entrambi funzione del tempo e del non disturbo antropico. Un altro importante parametro dell’ecosistema forestale legato all’età del bosco, e quindi al fattore tempo, è la presenza del legno morto (Travaglini et al., 2012). È ormai universalmente riconosciuto il ruolo della necromassa per la conservazione della biodiversità (WWF Switzerland, 2004; Marchetti e Lombardi, 2006). Lasciare alla foresta il tempo per raggiungere le fasi strutturali più avanzate è fondamentale perché si accumuli in modo naturale una massa di legno morto capace di creare nicchie ecologiche tali da incrementare la biocomplessità e, in particolare, la rete trofica.
CONCLUSIONI
Da quanto detto appare evidente che vi sia un contrasto stridente tra la fondamentale importanza di concedere spazio e tempo agli ecosistemi forestali e le azioni, ancora troppo diffuse, di una “selvicoltura attiva” che prescinde spesso dalla conservazione del capitale produttivo e si concentra principalmente, se non esclusivamente, sul prodotto ritraibile in tempi brevi e sulle più ampie superfici possibili (Bottacci, 2018b), prescindendo spesso dall’attuale conoscenza ecologica e conservazionistica (Chiarucci e Piovesan, 2018).
Quasi sempre si continua a considerare il bosco non come un sistema complesso autopoietico, ma come un semplice insieme di alberi da utilizzare, insieme incapace di sopravvivere senza l’intervento dell’uomo, del quale non si considerano né le esigenze di spazio né quelle di tempo.
Come afferma giustamente Pedrotti (2007), il processo di sinantropizzazione delle foreste produce cambiamenti negativi, che portano alla degenerazione (impoverimento senza compromissione della fitocenosi originaria) e anche alla regressione (forma più grave dove le fitocenosi originarie sono sostituite da fitocenosi meno complesse e a fitomassa minore).
Olaczek (1974), già molti anni fa, considerava, tra le forme di degenerazione degli ecosistemi forestali, il ringiovanimento (juvenalization), cioè il mantenimento delle fitocenosi agli stadi iniziali a causa dei tagli periodici, che limitavano a pochi decenni il tempo a disposizione.
I tagli sono disturbi innaturali che, se si presentano con frequenze accelerate e su superfici ampie, possono innescare questi fenomeni di regressione, costringendo l’ecosistema forestale a permanere nei suoi stadi iniziali, più semplificati e meno stabili.
La biocomplessità è alterata da tagli intensi e ripetuti a breve distanza (con cambiamenti repentini nella struttura e composizione del sistema). È noto che negli ecosistemi forestali naturali o con basso disturbo antropico, la biocomplessità è maggiore anche a causa della presenza di molte specie rare e minacciate, quasi del tutto assenti in quelli gestiti (Christensen e Emborg, 1996).
Anche tenendo conto del ruolo prioritario delle foreste nell’attenuazione del global change, è fondamentale cambiare decisamente i principi di fondo della gestione, tenendo decisamente più in considerazione i parametri che abbiamo discusso nel presente lavoro: lo spazio e il tempo.
Una selvicoltura per le foreste del futuro dovrà innanzi tutto partire da un assunto, che forse a molti forestali apparirà “eretico”: partendo dal principio che, in generale, gli interventi di taglio rappresentano un disturbo innaturale per le foreste e che, d’altro canto, l’uomo ha la necessità di avere a disposizione i prodotti legnosi che le foreste forniscono, la corretta selvicoltura dovrà operare in modo da ottenere quanto serve all’uomo, riducendo al minimo il disturbo all’ecosistema forestale, contenendolo cioè entro i limiti della sua capacità resiliente e dando alle foreste lo spazio e il tempo di cui hanno bisogno.
Per ottenere questo risultato sarà fondamentale, prima di tutto, preservare la continuità ecologica della foresta; continuità sia in senso spaziale (evitando la frammentazione, fisica ed ecologica, dei popolamenti), sia in senso temporale (evitando repentini e frequenti cambi strutturali del popolamento stesso).
Fornendo agli ecosistemi forestali un adeguato spazio (almeno uguale o superiore alla superficie minima vitale) e un tempo indefinito (prescindendo quindi dalla definizione di turni), si potrà attuare anche una gestione che si può definire delle alte provvigioni, ottenendo foreste ricche di biomassa. In esse si potrà ottenere una ripresa importante, pur mantenendo molto basso il tasso di utilizzazione (parametro che, in qualche modo, può essere indicativo dell’entità del disturbo arrecato con i prelievi).
La continuità ecologica e l’intervento antropico nullo o di bassa intensità favoriranno la costituzione di popolamenti sempre più resilienti e quindi, secondo la definizione di selvicoltura data sopra, anche più capaci di supportare e sopportare una gestione con finalità economiche.
Come mostrato, lo spazio ed il tempo influiscono positivamente sulla bio complessità delle foreste; questa, a sua volta, è la base della resilienza che le rende stabili (Rist e Moen, 2013). Per cui la moderna gestione forestale non potrà più prescindere da questi due parametri. Di fronte alla riduzione continua delle superfici forestali della Terra (18 milioni di km2 di superficie forestale persi negli ultimi 8.000 anni) (FAO, 2018), alla loro pericolosa semplificazione e alla minaccia incombente dei cambiamenti climatici, diventa indispensabile liberarsi dalla visione antropocentrica (pericolosa eredità dell’Illuminismo), che attribuisce all’Uomo una capacità di indirizzo superiore anche a quella della Natura stessa, e imboccare la via di una decisa azione di “conservazione del processo naturale”.
In considerazione del loro grande valore, è ineluttabile fare una scelta radicale di rispetto per gli ecosistemi naturali indisturbati (tra i quali, in primo luogo, quelli forestali) (Watson et al., 2018), riservando loro la metà della Terra, come proposto da Wilson (2016), facendo così in modo che non vi siano limitazioni di spazio e di tempo all’espressione delle loro potenzialità.
da Valentina Venturi | 10 Dic, 2020 | Difesa Foreste, Foreste, Letture, TUFF e SFN, Uncategorized
Un racconto di Fabio Clauser
Ai primi di agosto il barbagianni di Pian del Tovo ha avuto un terribile incubo. Racconto qui il sogno e le vicende che lo inquadrano: rappresentano, mi pare, una situazione virtualmente non molto diversa dalla attuale inquietante realtà forestale italiana.
***
Viola Erba Diversetti voleva studiare la vegetazione di una grande radura nel bel mezzo dell’abetina di Montebello: un bel prato pascolato da animali domestici e selvatici. Per arrivarci camminava tra gli abeti con lo sguardo rivolto sempre a terra lamentando tra sé la scarsa presenza di erbe e cespugli.
Improvvisamente apparve al suo sguardo indagatore il fiorire abbondante della Luzzola e della Asperula. Se ne rallegrò, ma un attimo dopo si rese conto di essere entrata in un altro tipo di bosco. Sapeva infatti che quelle erbe erano tipiche della faggeta: aveva sbagliato sentiero.
Fu la sua fortuna perché stava avviandosi ad un pericoloso dirupo. Tornò sui suoi passi. Ritrovata la retta via, raggiunse la grande radura. Camminava leggera. Pensava ai mazzetti di Asperula che tutti gli anni aveva portato al nonno che la essiccava per ricavarne una grappa profumata, dal bel colore verde brillante. La conservava assieme a quella di genziana nell’armadietto dei medicinali. ***
Lo stesso giorno Foresto Boschi Chiari stava percorrendo un rimboschi mento di pino nero d’Austria di poco più di 60 anni, situato sulle pendici assolate di Montebrullo. Lo aveva coraggiosamente diradato qualche anno prima con il proposito di favorirne la crescita e contemporaneamente di avviare la penetra zione delle latifoglie.
Lo scandalo della specie aliena doveva essere eliminato il più presto possibile. Era arrivato il momento di vedere come stavano le cose. Andava guardando sempre in alto per controllare lo sviluppo delle chiome: che ancora non si toc cassero. Non era facile il camminare: c’era sì tanta più erba, ma a tratti si era sviluppato un fitto intreccio di pruni spinosi e di rovi insidiosi. Tanto che ad un certo punto, inciampando nel tralcio robusto di un rovo, Foresto cadde rovino samente a terra. Si rialzò imprecando con parole non riferibili. Non era quella la biodiversità che si era aspettato.
Con la faccia tutta insanguinata per le punture degli spini e per i graffi profondi dei rovi, giurò che si sarebbe vendicato appena possibile con il fuoco prescritto, la cura da lui preferita per prevenire gli incedi. Semplice: se il sottobosco si bruciava prima, l’incendio non si sarebbe sviluppato dopo! Ma se con il vento passava da chioma a chioma? Foresto ebbe un’idea a dir poco geniale: il distanziamento sociale! Ne avrebbe parlato con il Professore.
***
Per strana sorte e rara coincidenza, Viola e Foresto pochi giorni dopo si trovarono ad un convegno promosso da una OFG (Organizzazione Filo Governativa) su “La degradante vecchiaia dei nostri boschi”. Nella locandina si auspicava un urgente soccorso al loro abbandono, alla loro trascurata ed infelice vecchiaia.
Il sottotitolo diceva: “Attiviamoci per attivare una gestione attiva sostenibile”. Foresto propose di intensificare i diradamenti e i tagli di rinnovazione di ogni tipo, accompagnando i diradamenti con l’impiego sistematico del fuoco prescritto. Viola, vista la rigogliosa biodiversità della radura, propose di diradare bene l’abetina circostante in modo che anch’essa ne potesse godere. Le due proposte furono bene accolte e approvate con grande maggioranza. Fu espressa perplessità soltanto da parte di qualche vecchio associato, vale a dire del tempo in cui l’Associazione non era ancora filogovernativa. Non tornava il discorso che si dovesse tagliare più di quanto già si stava facendo. Ma poiché la tesi era sostenuta da illustri accademici e da autorevolissimi burocrati, i pochi dissidenti ritennero amaramente di non essere più all’altezza o forse alla profondità abissale dei tempi. La mozione finale auspicò una gestione attiva ispirata ai sani principi di selvicoltura tanto bene espressi da Viola e Foresto: da applicare obbligatoriamente su scala nazionale. A chiusura dei lavori tutti si alzarono in piedi per cantare l’inno ufficiale dei taglialegna:
I nostri boschi vogliam salvare.
Abbandonati e vecchi
non li possiam lasciare.
Ai nostri boschi dobbiam badare.
Molto di più dobbiam tagliare.
Con motoseghe e processori
dai gran motori.
Tagliam, tagliam di più
ancor di più tagliam, tagliam.
Per quanto impervi i territori,
con grandi ruspe e scavatori
apriam le piste.
Cose mai viste!
Coi soldi facili delle biomasse,
tutto più semplice fa il mio governo.
E sostenibile sarà in eterno.
Taagliam tagliam tagliam,
Di più ancor tagliam.
Per quanto virtuali, il frastuono del coro stonato e il rumore assordante di tante motoseghe svegliarono il barbagianni con qualche anticipo sull’apparire delle stelle: non fece gran caso a quel che aveva sognato, ma lo mise di pessimo umore.
Attribuì l’incubo al non aver bene digerito la vecchia pantegana predata la notte precedente. Gli venne tuttavia spontaneo domandarsi: “Le nuove generazioni sarebbero state davvero gratificate dai taglialegna?”. Così avevano solenne mente affermato al convegno, ma il barbagianni non ne era per niente convinto.
A suo parere, era più probabile che nel prossimo futuro i giovani maledices sero i loro vecchi per quel che avevano combinato, foreste mal gestite comprese: boschi ancor più poveri, meno produttivi e meno protettivi.
“Le generazioni future si rassegneranno e cercheranno”, pensò, “come sem pre hanno fatto, di riparare alle malefatte delle generazioni passate – guerre, in quinamento ambientale, effetto serra, debiti astronomici, eccetera. E, si spera, anche alla mala gestione del territorio forestale”.
Dopo queste sagge considerazioni, il barbagianni, finalmente del tutto sveglio, si mise in volo alla ricerca di qualche topolino più facile da digerire.
***
Vetusto Selvatici era amico del barbagianni. Si può dire fin da quando era nato: lo aveva trovato a terra malconcio dopo il primo tentativo di volo, lo aveva raccolto, portato a casa e curato. Il pulcino era guarito e gli svolazzava per stanze e corridoio, quasi si fosse addomesticato. Poi, incoraggiato da Vetusto, se ne andò in foresta, ma i due rimasero sempre in contatto.
“Non devi prendertela con tanta filosofia”, disse Vetusto al barbagianni, “non era un incubo, ma una premonizione: è anche affar tuo. Di pantegane ne hai mangiate tante, ma che io sappia, di incubi così inquietanti non ne hai mai avuti. Guarda che il Governo se la sta prendendo davvero con i boschi, considerati vecchi già a cinquanta anni. Il castagno ‘bugio’ che ti ospita, di anni chissà quanti ne ha. Probabilmente sarà uno dei primi alberi a dover essere abbattuto. E tu dove andrai ad abitare? Con i tempi che corrono sai bene quanto sia difficile trovare un altro alloggio”.
“Tu mi vuoi spaventare” disse il barbagianni. Ma la notte successiva, mentre andava a caccia, si mise a guardare in giro per trovare soluzioni alternative alla sua bella casa.
Dopo molte inutili ricerche sentì parlare di certi GUFI, un’Associazione ambientalista che cerca di opporsi a quella sciagurata nuova selvicoltura di Stato. Trattandosi di uomini e non di gufi veri non si fidava tanto, ma lo considerava pur sempre un lodevole tentativo. “Se non ci riescono”, pensò infine, “le mie ali in qualche notte di viaggio mi porteranno in un Paese più civile dove si trovino ancora boschi veri e case sicure, dove non sia nemmeno immaginabile avere incubi tanto inquietanti”.
da Valentina Venturi | 19 Giu, 2020 | TUFF e SFN
È stata presentata la bozza di nuova Strategia Forestale Nazionale (SFN) per i prossimi 20 anni, su cui si è appena conclusa la consultazione pubblica. Il GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane, insieme a USB – Unione Sindacati di Base e alle associazioni Grig -Gruppo Intervento Giuridico, ISDE Italia – Medici per l’ambiente, Italia Nostra Toscana, Italia Nostra Abruzzo, Italia Nostra Friuli Venezia Giulia, Italia Nostra Marche, Italia Nostra ABC Alleanza Bene Comune– La Rete, ALTURA – Associazione per La Tutela degli Uccelli Rapaci e dei loro habitat, CODACONS, Atto Primo: salute, ambiente e cultura, Comitato Tutela Alberi Bologna e Provincia, European Consumers, Forum Ambiente e Salute Lecce, Lipu Grosseto, Lupus in Fabula, Liberi Pensatori a Difesa della Natura, STAI-Stop Taglio Alberi Italia – Comitato Coordinamento Nazionale, CISDAM (Centro Italiano Studi e Documentazione per gli Abeti Mediterranei), Ecoistituto Abruzzo, Mila Donnambiente, Le Majellane e Centro Parchi Internazionale, esprimono una forte delusione per i contenuti e gli obiettivi del documento. Le associazioni firmatarie, bocciando l’impianto della Strategia nel suo complesso, hanno mandato al Ministero le seguenti osservazioni.
– Nella Strategia prevale un indirizzo economico di sfruttamento estrattivo delle risorse (in particolare per la fornitura di biomassa per il settore energetico), trattando le foreste come infrastrutture produttive. La SFN, al di là di qualche frase fatta sulla protezione dell’ambiente, fa propri gli assunti del TUFF – Testo Unico Forestale: vede nell’espandersi della superficie dei boschi italiani un problema e spinge per una maggiore “manutenzione” degli stessi in un’ottica di gestione attiva. Una gestione ad alto impatto ambientale già ora ampiamente praticata, le cui conseguenze sono la riduzione della biodiversità e un maggiore rischio idrogeologico. L’assimilazione della Gestione Forestale Sostenibile con la Gestione Attiva nella Strategia è impropria e viola la normativa internazionale, e non viene bilanciata da norme a salvaguardia dell’ambiente.
– L’approccio ecologico dichiarato è solo di facciata, non c’è la ricerca di un equilibrio fra produzione e tutela delle foreste.
– L’effettiva partecipazione è impedita in quanto la proposta di SFN non indica in modo chiaro e trasparente i propri presupposti e le sue reali priorità. In particolare mancano dati certi sulla reale consistenza del patrimonio forestale nazionale, sull’entità delle utilizzazioni e sul loro andamento nell’ultimo decennio, senza i quali una programmazione forestale perde di senso.
– Il Green Deal Europeo viene ignorato, in quanto la SFN è stata proposta senza attendere le nuove strategie europee, quella sulla Biodiversità, nonché la nuova strategia forestale europea prevista per il 2020.
– Il quadro normativo di riferimento ignora la Legge sulle Norme in materia di domini collettivi e non è stata considerata nelle valutazioni di coerenza e coordinamento la strategia nazionale per le aree interne (SNAI).
– La Strategia non tiene in conto del ruolo fondamentale (nel contesto della crisi climatica): della silvicoltura intesa come ecologia applicata di ispirazione naturalistica e sistemica; del restauro forestale; di aree di monitoraggio permanenti; delle aree ad accrescimento naturale e indefinito; del ruolo delle comunità locali e della necessità di distinguere tra aree produttive ed aree conservative, tra ecoservizi ed ecobenefici. Gli ecobenefici dovrebbero essere tutelati slegandoli da questioni economiche.
– Appaiono travisate le competenze in materia di AIB (Anti Incendio Boschivo) ed il ruolo della Legge quadro in materia di incendi boschivi e non risulta al riguardo alcun coordinamento con i ministeri competenti e la Protezione Civile.
– Manca una reale analisi di copertura finanziaria.
Il documento appare quindi prematuro e la consultazione pubblica dovrà essere riproposta. I problemi del settore forestale sono conseguenza di anni di politiche sbagliate che hanno delegato alle Regioni la gestione del patrimonio boschivo: le leggi variano grandemente da Regione a Regione, con un caos normativo che si traduce in una mancanza di visione a lungo termine. È necessario armonizzare le normative e le strutture regionali fra loro secondo una logica unitaria, per uscire dall’anarchia nella quale versa il settore forestale e si devono riorganizzare i servizi e gli uffici regionali sul territorio secondo livelli standard omogenei.
La gestione del patrimonio forestale pubblico e dei boschi privati “abbandonati”, degli alvei dei fiumi, delle aree in dissesto idrogeologico e dell’antincendio boschivo deve essere affidata ad agenzie multiservizi regionali pubbliche, dotate di strutture tecniche adeguate, che devono operare attraverso una programmazione annuale. Alle stesse si potrebbe anche affidare il servizio di irrigazione agricola svolto attualmente dai consorzi regionali, con un contratto di servizio unitario a livello regionale attraverso la cessione dell’acqua agli agricoltori a un prezzo politico, differenziato sulla base degli effettivi consumi e della redditività delle colture. Solo queste entità pubbliche fornirebbero le necessarie garanzie sul corretto impiego delle risorse e beni pubblici e sulla gestione di boschi e terreni abbandonati nell’interesse esclusivo della collettività, al pari dell’acqua e degli altri beni comuni, nelle quali ricollocare e riorganizzare il personale delle soppresse comunità montane, dei consorzi di bonifica, e di quello impiegato per questi servizi presso le strutture regionali e provinciali, nelle quali assumere e far lavorare stabilmente centinaia di persone in ogni regione, soprattutto delle aree interne, dove maggiore è l’abbandono del territorio e la disoccupazione.
L’Italia non si può permettere di perdere altri 20 anni per porre rimedio ad una situazione che continua a peggiorare sempre di più: l’incremento continuo di incendi, frane e alluvioni che interessano il territorio sono una prova evidente dei cambiamenti climatici in atto e richiedono l’adozione di scelte coraggiose e non più procrastinabili. Scelte che considerino i benefici ecosistemici e mirino alla conservazione del patrimonio boschivo e non a incentivarne lo sfruttamento. La pubblica amministrazione deve ritornare alla sua funzione istituzionale originaria, che non è certo quella produttiva finalizzata a massimizzare i ricavi immediati, svendendo il valore del patrimonio forestale pubblico fin qui accumulato.
Commenti recenti