INCUBO DI MEZZA ESTATE – Il sogno del barbagianni
Un racconto di Fabio Clauser
Ai primi di agosto il barbagianni di Pian del Tovo ha avuto un terribile incubo. Racconto qui il sogno e le vicende che lo inquadrano: rappresentano, mi pare, una situazione virtualmente non molto diversa dalla attuale inquietante realtà forestale italiana.
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Viola Erba Diversetti voleva studiare la vegetazione di una grande radura nel bel mezzo dell’abetina di Montebello: un bel prato pascolato da animali domestici e selvatici. Per arrivarci camminava tra gli abeti con lo sguardo rivolto sempre a terra lamentando tra sé la scarsa presenza di erbe e cespugli.
Improvvisamente apparve al suo sguardo indagatore il fiorire abbondante della Luzzola e della Asperula. Se ne rallegrò, ma un attimo dopo si rese conto di essere entrata in un altro tipo di bosco. Sapeva infatti che quelle erbe erano tipiche della faggeta: aveva sbagliato sentiero.
Fu la sua fortuna perché stava avviandosi ad un pericoloso dirupo. Tornò sui suoi passi. Ritrovata la retta via, raggiunse la grande radura. Camminava leggera. Pensava ai mazzetti di Asperula che tutti gli anni aveva portato al nonno che la essiccava per ricavarne una grappa profumata, dal bel colore verde brillante. La conservava assieme a quella di genziana nell’armadietto dei medicinali. ***
Lo stesso giorno Foresto Boschi Chiari stava percorrendo un rimboschi mento di pino nero d’Austria di poco più di 60 anni, situato sulle pendici assolate di Montebrullo. Lo aveva coraggiosamente diradato qualche anno prima con il proposito di favorirne la crescita e contemporaneamente di avviare la penetra zione delle latifoglie.
Lo scandalo della specie aliena doveva essere eliminato il più presto possibile. Era arrivato il momento di vedere come stavano le cose. Andava guardando sempre in alto per controllare lo sviluppo delle chiome: che ancora non si toc cassero. Non era facile il camminare: c’era sì tanta più erba, ma a tratti si era sviluppato un fitto intreccio di pruni spinosi e di rovi insidiosi. Tanto che ad un certo punto, inciampando nel tralcio robusto di un rovo, Foresto cadde rovino samente a terra. Si rialzò imprecando con parole non riferibili. Non era quella la biodiversità che si era aspettato.
Con la faccia tutta insanguinata per le punture degli spini e per i graffi profondi dei rovi, giurò che si sarebbe vendicato appena possibile con il fuoco prescritto, la cura da lui preferita per prevenire gli incedi. Semplice: se il sottobosco si bruciava prima, l’incendio non si sarebbe sviluppato dopo! Ma se con il vento passava da chioma a chioma? Foresto ebbe un’idea a dir poco geniale: il distanziamento sociale! Ne avrebbe parlato con il Professore.
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Per strana sorte e rara coincidenza, Viola e Foresto pochi giorni dopo si trovarono ad un convegno promosso da una OFG (Organizzazione Filo Governativa) su “La degradante vecchiaia dei nostri boschi”. Nella locandina si auspicava un urgente soccorso al loro abbandono, alla loro trascurata ed infelice vecchiaia.
Il sottotitolo diceva: “Attiviamoci per attivare una gestione attiva sostenibile”. Foresto propose di intensificare i diradamenti e i tagli di rinnovazione di ogni tipo, accompagnando i diradamenti con l’impiego sistematico del fuoco prescritto. Viola, vista la rigogliosa biodiversità della radura, propose di diradare bene l’abetina circostante in modo che anch’essa ne potesse godere. Le due proposte furono bene accolte e approvate con grande maggioranza. Fu espressa perplessità soltanto da parte di qualche vecchio associato, vale a dire del tempo in cui l’Associazione non era ancora filogovernativa. Non tornava il discorso che si dovesse tagliare più di quanto già si stava facendo. Ma poiché la tesi era sostenuta da illustri accademici e da autorevolissimi burocrati, i pochi dissidenti ritennero amaramente di non essere più all’altezza o forse alla profondità abissale dei tempi. La mozione finale auspicò una gestione attiva ispirata ai sani principi di selvicoltura tanto bene espressi da Viola e Foresto: da applicare obbligatoriamente su scala nazionale. A chiusura dei lavori tutti si alzarono in piedi per cantare l’inno ufficiale dei taglialegna:
I nostri boschi vogliam salvare.
Abbandonati e vecchi
non li possiam lasciare.
Ai nostri boschi dobbiam badare.
Molto di più dobbiam tagliare.
Con motoseghe e processori
dai gran motori.
Tagliam, tagliam di più
ancor di più tagliam, tagliam.
Per quanto impervi i territori,
con grandi ruspe e scavatori
apriam le piste.
Cose mai viste!
Coi soldi facili delle biomasse,
tutto più semplice fa il mio governo.
E sostenibile sarà in eterno.
Taagliam tagliam tagliam,
Di più ancor tagliam.
Per quanto virtuali, il frastuono del coro stonato e il rumore assordante di tante motoseghe svegliarono il barbagianni con qualche anticipo sull’apparire delle stelle: non fece gran caso a quel che aveva sognato, ma lo mise di pessimo umore.
Attribuì l’incubo al non aver bene digerito la vecchia pantegana predata la notte precedente. Gli venne tuttavia spontaneo domandarsi: “Le nuove generazioni sarebbero state davvero gratificate dai taglialegna?”. Così avevano solenne mente affermato al convegno, ma il barbagianni non ne era per niente convinto.
A suo parere, era più probabile che nel prossimo futuro i giovani maledices sero i loro vecchi per quel che avevano combinato, foreste mal gestite comprese: boschi ancor più poveri, meno produttivi e meno protettivi.
“Le generazioni future si rassegneranno e cercheranno”, pensò, “come sem pre hanno fatto, di riparare alle malefatte delle generazioni passate – guerre, in quinamento ambientale, effetto serra, debiti astronomici, eccetera. E, si spera, anche alla mala gestione del territorio forestale”.
Dopo queste sagge considerazioni, il barbagianni, finalmente del tutto sveglio, si mise in volo alla ricerca di qualche topolino più facile da digerire.
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Vetusto Selvatici era amico del barbagianni. Si può dire fin da quando era nato: lo aveva trovato a terra malconcio dopo il primo tentativo di volo, lo aveva raccolto, portato a casa e curato. Il pulcino era guarito e gli svolazzava per stanze e corridoio, quasi si fosse addomesticato. Poi, incoraggiato da Vetusto, se ne andò in foresta, ma i due rimasero sempre in contatto.
“Non devi prendertela con tanta filosofia”, disse Vetusto al barbagianni, “non era un incubo, ma una premonizione: è anche affar tuo. Di pantegane ne hai mangiate tante, ma che io sappia, di incubi così inquietanti non ne hai mai avuti. Guarda che il Governo se la sta prendendo davvero con i boschi, considerati vecchi già a cinquanta anni. Il castagno ‘bugio’ che ti ospita, di anni chissà quanti ne ha. Probabilmente sarà uno dei primi alberi a dover essere abbattuto. E tu dove andrai ad abitare? Con i tempi che corrono sai bene quanto sia difficile trovare un altro alloggio”.
“Tu mi vuoi spaventare” disse il barbagianni. Ma la notte successiva, mentre andava a caccia, si mise a guardare in giro per trovare soluzioni alternative alla sua bella casa.
Dopo molte inutili ricerche sentì parlare di certi GUFI, un’Associazione ambientalista che cerca di opporsi a quella sciagurata nuova selvicoltura di Stato. Trattandosi di uomini e non di gufi veri non si fidava tanto, ma lo considerava pur sempre un lodevole tentativo. “Se non ci riescono”, pensò infine, “le mie ali in qualche notte di viaggio mi porteranno in un Paese più civile dove si trovino ancora boschi veri e case sicure, dove non sia nemmeno immaginabile avere incubi tanto inquietanti”.
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