I boschi visti come un cancro. Ridicolizzate le tesi ambientaliste dall’asse PD-Lega-Fratelli d’Italia
I boschi visti come un cancro. Ridicolizzate le tesi ambientaliste dall’asse PD-Lega-Fratelli d’Italia. Lega e PD hanno presentato due mozioni identiche per chiedere di modificare la Legge che tutela le foreste protette dal Codice del Paesaggio. Solo il Movimento 5 Stelle ha votato contro alle due mozioni che mostrano la stessa visione liberista ed economicista dello sfruttamento delle risorse naturali in dispregio alle leggi dello Stato.
Il Consiglio di Stato ha recentemente sancito in un ricorso presentato da Italia Nostra e da altre associazioni per la Pineta del Tombolo, che anche i boschi sono beni culturali e pertanto meritano di essere tutelati dalla Soprintendenza. Le mozioni di PD-LEGA- Fratelli d’Italia, chiedendo al Governo di intervenire, mirano a eliminare l’autorizzazione paesaggistica per il taglio nei boschi “di riconosciuto interesse pubblico” per favorire aziende che operano nel settore della selvicoltura meno attente alle esigenze ambientali.
“Il parere della Soprintendenza in realtà – ha puntualizzato la consigliera del Movimento Cinque Stelle Silvia Noferi – non istituisce niente di nuovo ma anzi chiarisce importanti aspetti legislativi che sono stati volutamente ignorati dal Settore Forestazione della Regione Toscana, sebbene siano stati sollevati da tempo in varie sedi. La responsabilità di questa situazione di stallo è stata quindi solo degli uffici regionali, che non hanno voluto adeguarsi al cambiamento già predisposto anche dal TUFF in vigore dal 2018 (D.Lvo 03/04/2018 n 34 – Testo unico in materia di foreste e filiere forestali). Nel frattempo, tutti i tagli approvati ed eseguiti in aree tutelate dall’art 136 del codice sono stati illegali.” La lungimiranza e il senso della realtà sembrano non arrivare nell’aula del Consiglio regionale, dove si sono sentite le argomentazioni più ridicole riguardo agli alberi visti come una sciagura, un cancro “che ha quasi raggiunto i crinali” devastando le piante di mirtilli e la fauna, o peggio paragonati all’insalata che una volta tagliata ricresce rapidamente! Le tesi ambientaliste difese dalla Consigliera, sono state tacciate di “estremismo, ortodossia, cose d’altri tempi, assurde, folli, da non poter essere ascoltate”, tanto che il Presidente del Consiglio le ha permesso di replicare per “fatto personale”: a lei va quindi tutto l’appoggio e la solidarietà di Italia Nostra.
Evidentemente nessuno si è accorto in Consiglio regionale che in Toscana ci sono problemi gravissimi di inquinamento ambientale, di mala gestione forestale, che aumenta il rischio idrogeologico e degrada il paesaggio, mettendo a rischio tutte le altre economie montane. Le argomentazioni opposte dai consiglieri di maggioranza, se seguite, non andrebbero altro che ad aumentare il rischio idrogeologico in Toscana, laddove la superficie forestale è vista come minaccia e non come protezione del territorio. Si confonde evidentemente la cura del bosco, la sua preservazione, con il non controllo ed il taglio colturale non regolamentato. Il Consiglio Regionale mette dunque in stato d’accusa il principio costituzionale della tutela discendente dall’art. 9 della Carta, accusando di ingerenza burocratica le funzioni dello Stato garantite dalla Soprintendenza, quando, invece, ha avvallato, sino alla sentenza del Consiglio di Stato, procedure di governo dei boschi in palese contrasto con la normativa vigente nazionale. Non è dunque possibile avallare vie illegittime di gestione del territorio da parte di organi legislativi regionali.
Non possiamo neanche barattare soluzioni tecniche di gestione del bosco, come quelle proposte dalla Soprintendenza, con allocuzioni che denotano confusione, non conoscenza, approssimazione nelle materie trattate, sino ad espressioni di ingiuria, come sopra citato.
Mariarita Signorini Vicepresidente Italia Nostra Toscana
Ai primi di agosto il barbagianni di Pian del Tovo ha avuto un terribile incubo. Racconto qui il sogno e le vicende che lo inquadrano: rappresentano, mi pare, una situazione virtualmente non molto diversa dalla attuale inquietante realtà forestale italiana.
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Viola Erba Diversetti voleva studiare la vegetazione di una grande radura nel bel mezzo dell’abetina di Montebello: un bel prato pascolato da animali domestici e selvatici. Per arrivarci camminava tra gli abeti con lo sguardo rivolto sempre a terra lamentando tra sé la scarsa presenza di erbe e cespugli.
Improvvisamente apparve al suo sguardo indagatore il fiorire abbondante della Luzzola e della Asperula. Se ne rallegrò, ma un attimo dopo si rese conto di essere entrata in un altro tipo di bosco. Sapeva infatti che quelle erbe erano tipiche della faggeta: aveva sbagliato sentiero.
Fu la sua fortuna perché stava avviandosi ad un pericoloso dirupo. Tornò sui suoi passi. Ritrovata la retta via, raggiunse la grande radura. Camminava leggera. Pensava ai mazzetti di Asperula che tutti gli anni aveva portato al nonno che la essiccava per ricavarne una grappa profumata, dal bel colore verde brillante. La conservava assieme a quella di genziana nell’armadietto dei medicinali. ***
Lo stesso giorno Foresto Boschi Chiari stava percorrendo un rimboschi mento di pino nero d’Austria di poco più di 60 anni, situato sulle pendici assolate di Montebrullo. Lo aveva coraggiosamente diradato qualche anno prima con il proposito di favorirne la crescita e contemporaneamente di avviare la penetra zione delle latifoglie.
Lo scandalo della specie aliena doveva essere eliminato il più presto possibile. Era arrivato il momento di vedere come stavano le cose. Andava guardando sempre in alto per controllare lo sviluppo delle chiome: che ancora non si toc cassero. Non era facile il camminare: c’era sì tanta più erba, ma a tratti si era sviluppato un fitto intreccio di pruni spinosi e di rovi insidiosi. Tanto che ad un certo punto, inciampando nel tralcio robusto di un rovo, Foresto cadde rovino samente a terra. Si rialzò imprecando con parole non riferibili. Non era quella la biodiversità che si era aspettato.
Con la faccia tutta insanguinata per le punture degli spini e per i graffi profondi dei rovi, giurò che si sarebbe vendicato appena possibile con il fuoco prescritto, la cura da lui preferita per prevenire gli incedi. Semplice: se il sottobosco si bruciava prima, l’incendio non si sarebbe sviluppato dopo! Ma se con il vento passava da chioma a chioma? Foresto ebbe un’idea a dir poco geniale: il distanziamento sociale! Ne avrebbe parlato con il Professore.
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Per strana sorte e rara coincidenza, Viola e Foresto pochi giorni dopo si trovarono ad un convegno promosso da una OFG (Organizzazione Filo Governativa) su “La degradante vecchiaia dei nostri boschi”. Nella locandina si auspicava un urgente soccorso al loro abbandono, alla loro trascurata ed infelice vecchiaia.
Il sottotitolo diceva: “Attiviamoci per attivare una gestione attiva sostenibile”. Foresto propose di intensificare i diradamenti e i tagli di rinnovazione di ogni tipo, accompagnando i diradamenti con l’impiego sistematico del fuoco prescritto. Viola, vista la rigogliosa biodiversità della radura, propose di diradare bene l’abetina circostante in modo che anch’essa ne potesse godere. Le due proposte furono bene accolte e approvate con grande maggioranza. Fu espressa perplessità soltanto da parte di qualche vecchio associato, vale a dire del tempo in cui l’Associazione non era ancora filogovernativa. Non tornava il discorso che si dovesse tagliare più di quanto già si stava facendo. Ma poiché la tesi era sostenuta da illustri accademici e da autorevolissimi burocrati, i pochi dissidenti ritennero amaramente di non essere più all’altezza o forse alla profondità abissale dei tempi. La mozione finale auspicò una gestione attiva ispirata ai sani principi di selvicoltura tanto bene espressi da Viola e Foresto: da applicare obbligatoriamente su scala nazionale. A chiusura dei lavori tutti si alzarono in piedi per cantare l’inno ufficiale dei taglialegna:
I nostri boschi vogliam salvare.
Abbandonati e vecchi
non li possiam lasciare.
Ai nostri boschi dobbiam badare.
Molto di più dobbiam tagliare.
Con motoseghe e processori
dai gran motori.
Tagliam, tagliam di più
ancor di più tagliam, tagliam.
Per quanto impervi i territori,
con grandi ruspe e scavatori
apriam le piste.
Cose mai viste!
Coi soldi facili delle biomasse,
tutto più semplice fa il mio governo.
E sostenibile sarà in eterno.
Taagliam tagliam tagliam,
Di più ancor tagliam.
Per quanto virtuali, il frastuono del coro stonato e il rumore assordante di tante motoseghe svegliarono il barbagianni con qualche anticipo sull’apparire delle stelle: non fece gran caso a quel che aveva sognato, ma lo mise di pessimo umore.
Attribuì l’incubo al non aver bene digerito la vecchia pantegana predata la notte precedente. Gli venne tuttavia spontaneo domandarsi: “Le nuove generazioni sarebbero state davvero gratificate dai taglialegna?”. Così avevano solenne mente affermato al convegno, ma il barbagianni non ne era per niente convinto.
A suo parere, era più probabile che nel prossimo futuro i giovani maledices sero i loro vecchi per quel che avevano combinato, foreste mal gestite comprese: boschi ancor più poveri, meno produttivi e meno protettivi.
“Le generazioni future si rassegneranno e cercheranno”, pensò, “come sem pre hanno fatto, di riparare alle malefatte delle generazioni passate – guerre, in quinamento ambientale, effetto serra, debiti astronomici, eccetera. E, si spera, anche alla mala gestione del territorio forestale”.
Dopo queste sagge considerazioni, il barbagianni, finalmente del tutto sveglio, si mise in volo alla ricerca di qualche topolino più facile da digerire.
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Vetusto Selvatici era amico del barbagianni. Si può dire fin da quando era nato: lo aveva trovato a terra malconcio dopo il primo tentativo di volo, lo aveva raccolto, portato a casa e curato. Il pulcino era guarito e gli svolazzava per stanze e corridoio, quasi si fosse addomesticato. Poi, incoraggiato da Vetusto, se ne andò in foresta, ma i due rimasero sempre in contatto.
“Non devi prendertela con tanta filosofia”, disse Vetusto al barbagianni, “non era un incubo, ma una premonizione: è anche affar tuo. Di pantegane ne hai mangiate tante, ma che io sappia, di incubi così inquietanti non ne hai mai avuti. Guarda che il Governo se la sta prendendo davvero con i boschi, considerati vecchi già a cinquanta anni. Il castagno ‘bugio’ che ti ospita, di anni chissà quanti ne ha. Probabilmente sarà uno dei primi alberi a dover essere abbattuto. E tu dove andrai ad abitare? Con i tempi che corrono sai bene quanto sia difficile trovare un altro alloggio”.
“Tu mi vuoi spaventare” disse il barbagianni. Ma la notte successiva, mentre andava a caccia, si mise a guardare in giro per trovare soluzioni alternative alla sua bella casa.
Dopo molte inutili ricerche sentì parlare di certi GUFI, un’Associazione ambientalista che cerca di opporsi a quella sciagurata nuova selvicoltura di Stato. Trattandosi di uomini e non di gufi veri non si fidava tanto, ma lo considerava pur sempre un lodevole tentativo. “Se non ci riescono”, pensò infine, “le mie ali in qualche notte di viaggio mi porteranno in un Paese più civile dove si trovino ancora boschi veri e case sicure, dove non sia nemmeno immaginabile avere incubi tanto inquietanti”.
Il destino delle società contemporanee è stato affidato all’economia e alla finanza, al liberismo globalizzato nell’illusione che questi fossero in grado di autoregolarsi, correggersi da errori e dare un futuro di progresso basato sulla previsione di una crescita continua. La crisi ecologica, economica e sociale in corso e le disuguaglianze accresciutesi enormemente ci mostrano quanto questa previsione si sia rivelata errata e quanto tempo abbiamo perso per avviare una transizione programmata e poco traumatica. Adesso la transizione energetica ed ecologica, del vivere e del produrre, è sempre più difficile e a tratti si annuncia anche dolorosa. Si parla, oramai, di RESISTENZA, di ADATTAMENTO e di MITIGAZIONE mentre il tempo utile per agire sta per scadere e l’urgenza fattasi estrema non ci consente più di commettere errori.
La conversione ecologica della società riguarda prioritariamente i settori dell’economia (con i suoi pesanti risvolti sociali), del clima, della biodiversità. Essa non può che fondarsi sull’uso di risorse naturali rinnovabili, in sostituzione delle fonti fossili e su metodi, stili di vita, tecnologie e organizzazione sociale compatibili con l’ambiente, con la salute degli ecosistemi a livello locale e globale.
Importanza strategica in questa transizione va assegnata alle risorse biologiche, biomasse e derivati provenienti dalla fotosintesi.
L’Europa ha finalmente delineato la macrostruttura di una linea politica per una «bioeconomia sostenibile», «circolare» che intende «rafforzare il collegamento tra economia, società e ambiente».
Ma gli scenari finora delineati presentano rischi (anche di clamorosi fallimenti) e criticità su troppe questioni irrisolte o indefinite, nonché contrasti nei confronti di linee politiche avviate dalla stessa Unione Europea in altri settori tra cui il tema epocale della BIODIVERSITA’ che è intimamente legato a quello del CLIMA.
Le specie che risultano estinte in Italia, negli anni più recenti, sono 6 sono (lo storione comune e quello ladano, la gru, la quaglia tridattila, il gobbo rugginoso; e un mammifero, il pipistrello rinolofo di Blasius).
Minacciate di estinzione in tempi probabilmente imminenti sono 161 (138 terrestri e 23 marine. Fonte: ISPRA)
Secondo la “lista rossa” dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) nel mondo 1.199 mammiferi (il 26% delle specie conosciute), 1957 anfibi (41%), 1.373 uccelli (13%) e 993 insetti (0,5%) sono minacciati di estinzione imminente. Il 25% delle 625 specie di primati oggi conosciute, organismi a noi zoologicamente più vicini per la loro appartenenza alla famiglia deli Ominidi nella Classe dei Primati, è in pericolo di estinzione.
Stiamo assistendo alla sesta estinzione di massa su scala globale a causa delle attività umane, tanto che nel 2000 è stato coniato il termine “antropocene” dal chimico e premio Nobel olandese Paul Crutzen, per designare l’era attuale in cui gli esseri umani hanno un impatto enorme su tutto l’ecosistema terrestre.
Tutti gli indicatori e gli indici esistenti, senza eccezione alcuna, mostrano una situazione di grave pericolo per la biodiversità e per gli habitat connessi.
Per gli agrosistemi la situazione è ancora peggiore: il numero delle estinzioni documentate di piante di interesse alimentare o come fonte di materie prime per prodotti pregiati, è pari al doppio della somma complessiva di quelle dei mammiferi, uccelli e anfibi.
Quando parliamo di biodiversità dobbiamo tenere ben presente che esistono ampie lacune conoscitive, anche in Italia e in Europa, che riguardano le comunità biologiche del suolo, la vita acquatica, gli insetti, il mondo dei funghi e dei batteri, la loro autoecologia, le relazioni tra le componenti biotiche degli ecosistemi e tra loro e il mondo chimico-fisico. Pertanto i dati già preoccupanti riportati in letteratura sono riferibili a una parte del biota, vale a dire a quello che conosciamo o pensiamo di conoscere ma la complessità dei sistemi naturali è talmente grande da sfuggire alle indagini scientifiche anche molto accurate. Batteri e microfunghi, ad esempio, sono artefici ubiquitari della scomposizione finale della materia morta o degli escreti dei viventi (detrito organico). Dobbiamo a questo regno biologico vastissimo e quasi negletto le reazioni dei processi catatabolici con i quali vengono scisse le molecole organiche complesse in molecole minerali più semplici e stabili, con conseguente liberazione di energia e messa a disposizione di nutrienti indispensabili per la vita delle piante. Si stima che al mondo esistano ameno 30 milioni di specie microbiche e noi ne sappiamo coltivare circa un migliaio e ne conosciamo appena qualche decina di migliaia.
L’esistenza del ciclo di materia sostenuto da un flusso di energia solare negli ecosistemi dipende completamente dall’efficienza dei microbi saprobici per cui la loro importanza è pari a quella della fotosintesi mentre noi animali negli ecosistemi siamo utili per la velocizzazione dei cicli biogeochimici e per la quantità di materia posta in circolo, ma non tecnicamente indispensabili. Potremmo auto-espellerci da Gaia e gli ecosistemi continuerebbero ad esistere, con lentezza dei cicli, in maniera semplificata, ma rigogliosamente e senza di noi.
A livello della comunità microbica cade anche il determinismo genetico, già caduto a livello di genoma non codificante e con la scoperta dell’epigenetica perché assume forte evidenza l’importanza dei mutevoli fattori ambientali e delle contingenze nell’adattamento e nell’evoluzione ontogenetica, filogenetica e antropologica. La scala dell’organizzazione della materia, con l’entropia negativa crescente, inoltre, ci mostra che non esiste l’ambiente. E’ più corretto parlare di AMBIENTI, ECOSISTEMI, tra loro correlati ed interagenti, sempre in fase evolutiva e quindi, nel tempo, mai identici a sé stessi. Questo non vale solo per il mosaico di ecosictemi visti “in orizzontale”, ma anche verticalmente. Il DNA ha come ambiente la cellula che è il suo “ecosistema”; lo stesso vale per un mitocondrio che tra l’altro ha un proprio DNA; un organo non è un insieme di cellule….ma è l’ambiente in cui si trovano e operano le cellule; un individuo non è un insieme di organi nè di cellule….ma è molto di più ed è inserito in un ecosistema che può essere naturale oppure semiurbano o urbano. Noi stessi siamo l’ecosistema del nostro microbioma intestinale (e non solo), ove il numero dei batteri simbionti che influenzano il nostro essere è superiore a quello di tutte le altre cellule del nostro organismo. Ai vari livelli di organizzazione della materia, lungo una scala verticale, nei vari “ambienti”, si producono proprietà e regole aggiuntive che non erano presenti nei livelli inferiori a minore contenuto di entropia negativa. Un ecosistema pertanto non è la somma di tutti i suoi componenti ma è molto di più grazie all’integrazione della infinità di ambienti che lo compongono. La biodiversità non è la quantità delle specie presenti in un ecosistema, ma è molto di più.
Il concetto di natura e di biodiversità si sono mostrati assai più complessi di quanto si riteneva solo 20 anni fa. Oggi appare come un mosaico pluridimensionale che include il parametro tempo, di ambienti mai completamente chiusi ma comunicanti e interattivi, con proprio ordine interno caratterizzato da grande complessità, con vari livelli di organizzazione e varie modalità di comunicazione che garantisce l’integrazione e la resilienza. Solo recentemente abbiamo scoperto che il livello epigenetico condiziona gli organismi, lo stato di salute, gli ecosistemi con meccanismi di complessità estrema e non conosciuti. Le mutazioni adattative dettate dai meccanismi epigenetici infatti, si sono rivelati assai più veloci di quelle genetiche interpretabili u scala di generazioni con Charles Darwin, Gregory Mendel, James Watson e Francis Crick e Jaques Monod. L’ENTROPIA DEI SISTEMI ECO-BIOLOGICI non si misura con la materia, bensì con l’ordine interno al sistema esaminato, vale a dire con il livello di complessità dato dalla ricchezza e caratteristiche delle sue componenti e dalle relazioni tra le parti (quindi dalla comunicazione attraverso segnali telemediatori acustici, visivi, olfattivi ed elettromagnetici) e con quelle con il biotopo. L’ecosistema è un mosaico di ambienti.
A livello attuale delle conoscenze le cause della perdita di biodiversità possono essere così individuate:
la perdita degli habitat (conversione agricola industriale dei suoli, edificazione, infrastrutture);
eccessivo sfruttamento delle risorse;
frammentazione dello spazio minimo vitale per le specie;
inquinamento;
interferenze endocrine
interferenze nei segnali telemediatori di comunicazione (suoni, colori, forme, sostanze aerodisperse che costituiscono “odori”, campi elettromagnetici)
Su tutto agisce la crisi climatica che produce riscaldamento globale, colpisce gli ambienti acquatici e il suolo con siccità e incendi, consente l’espandersi di parassitosi, provoca scompensi nell’autoecologia, eventi estremi ricorrenti, la comparsa di specie aliene nei nostri habitat. Per quanto riguarda quest’ultime i dati del Mediterraneo sono illuminanti.
Complessivamente, ad oggi, nel Mediterraneo sono intruse 565 specie alloctone:
? 132 appartenenti al regno vegetale
?25 celenterati, ?16 briozoi,
?141 molluschi, ?59 anellidi,
?60 crostacei, ?12 ascidiacei,
?120 pesci.
Di queste, 185 specie sono già intruse nei mari italiani
Fonte: Commission Internationale pour l’exploration Scientifique de la Mèditerranèe
Come si pone la Strategia europea sulla bioeconomy di fronte a questo quadro?
Il peccato originale del documento “Una bioeconomia sostenibile per l’Europa” risiede nel fatto che viene individuata come destinataria degli interventi, l’industria, e il rilancio della competitività. Da questa premessa non possiamo aspettarci molto di buono sul tema della biodiversità. A livello agroalimentare, per esempio, chi custodisce la variabilità genetica e ha consentito la sopravvivenza di cultivar diversificati, non è certo l’industria che invece persegue la standardizzazione dei prodotti, la massima uniformità possibile e rincorre criteri di vendita competitiva su aspetti estetici dei prodotti quali colore e dimensioni e il minor numero possibile di addetti. Custode della biodiversità è invece la costellazione di produttori agricoli, di aziende artigiane tradizionali che operano sulla base di antichi saperi e che sono detentori di genotipi, anche se questi non garantiscono loro crescita importante dei profitti. Le pratiche agricole di questo tipo sono il risultato di secoli o millenni di ricerca applicata, di sperimentazioni ancorchè empiriche mosse non solo dal desiderio di conoscenza o dal legame con a tradizione, ma dalla necessità di sopravvivenza e di adeguare il loro operato alle condizioni ecologiche locali. I cultivar sono stati trasmessi nel tempo tra le generazioni e le buone pratiche connesse per tradizione orale e il tutto è stato storicamente condiviso in forma cooperativa e per tradizione orale mentre il miglioramento dei prodotti è avvenuto nel rispetto delle leggi della natura, con gradualità nel tempo. La strategia europea non considera questo grande ed effettivo giacimento di saperi né i detentori diffusi di genotipi locali coltivati in situ, mentre rischia addirittura di minacciarne l’esistenza. Infatti focalizza, tra gli strumenti attuativi, il tema della certificazione. Ma se la certificazione riguardasse solo i prodotti industriali a cui pare rivolgersi la strategia in forma esclusiva, potremmo creare un mondo in cui ciò che è prodotto all’infuori della sfera industriale diviene marginale e perente (se va bene), residuale (e destinato all’estinzione, se va male), o addirittura illegale (se va come vorrebbe una certa industria che non ama di certo la concorrenza, anche dei “piccoli” produttori). Pensate cosa rischierebbe l’Italia dal punto di vista della cultura culinaria, dei prodotti tipici locali di difficile certificazione, del paesaggio agrario. L’importanza per l’umanità della conservazione dei genotipi d’interesse agronomico non è nuova: il botanico Nikolai Vavilov, tra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso raccolse semi in 65 Paesi e fondò l’istituto che oggi è ancora attivo e conserva 350 mila specie a San Pietroburgo. Resistette con i suoi collaboratori all’assedio nazista senza toccare un solo seme mentre morivano di fame ma fu poi eliminato da Stalin. Oggi l’Istituto Svalbard Global Seed Vault in Norvegia conserva in un bunker tra i ghiacci 7 milioni di campioni di colture da tutto il mondo. Ma quei ghiacci vanno sciogendosi. In ogni caso è solo questa la salvezza della biodiversità agronomica? Non è meglio rivolgersi alla terra, a valorizzare l’opera degli agricoltori?
Inoltre, una bioeconomia dovrebbe introdurre quanti più possibili meccanismi di cooperazione piuttosto che competitività e, per giunta, misurata come oggi avviene con il P.I.L. che notoriamente include esclusivamente gli aspetti quantitativi dei mercati mentre ignora completamente indicatori di benessere individuale e sociale nonchè dell’ambiente . La cooperazione, le simbiosi, sono strategie vincenti in natura e nel sociale (Georgeschu Roegen).
La Strategia Europea non fa accenno alla necessità di ridurre i consumi attraverso beni durevoli né considera il fine vita dei prodotti e il loro destino rispettosi dei cicli ecologici. Per quanto riguarda la riduzione dei consumi il rischio più grande è quello del consumo di suolo. Se si pensa di sostituire l’impiego dei combustibili fossili, soprattutto per autotrazione, con biofluel (benzine ottenute dalla trans-esterificazione degli oli vegetali, biogas e biocarburanti in genere) senza ridurre drasticamente i consumi attuali, occorreranno immense distese di monocolture industriali a solo scopo energetico e il sacrificio di ambienti ed ecosistemi, con connesso incremento della perdita di biodiversità. Procedere poi al trattamento dei rifiuti organici dell’era “bio” in impianti di gassificazione è di scarsa efficienza termodinamica, comporta l’introduzione di una complicazione tecnologica inutile rispetto , ad es., al compostaggio aerobico, nonché impiego di risorse e fornitura di prodotti climalteranti.
Non prende in considerazione la necessità di ridurre la nostra insostenibile impronta ecologica, possibile con l’avvio di un processo di abbandono della proprietà privata dei beni per transitare alla fruizione di «servizi» (Paul Hawken, Amory Lovins, L. Hunter Lovins). Perché possedere in proprio un’automobile, un trattore, quando è possibile che restino in proprietà del produttore e che sia possibile averli a disposizione solo quando serve, a prezzi bassi, pagando solo le ore di uso e quindi il solo servizio reso? Ciò farebbe cessare l’obsolescenza programmata dei beni costringendo il produttore a progettarli per il massimo della durabilità, stroncherebbe il consumismo, costringerebbe a realizzare prodotti più performanti e porterebbe ad un’evoluzione tecnologica, ottimizzazione e prezzi accessibili, esattamente com’è avvenuto nel campo delle fotocopiatrici.
L’unità di analisi della Strategia continua a non essere costituita dal benessere degli individui e del complesso della società mentre in bioeconomia vanno valutati insieme a questo le relazioni fra i sistemi biologici ai vari livelli con quelli economico-sociali (G. Bateson).
In economia, a partire da quella famigliare, è decisivo conoscere e tenere sotto controllo l’ammontare del capitale, stimare le rendite, controllare le uscite, avere contezza, in definitiva, della consistenza economica e del suo trend. Fare diversamente comporta il rischio di fare prelievi eccessivi e di staccare assegni a vuoto con le conseguenze del caso. Inoltre viene considerato il merito delle spese in relazione al benessere e alla soddisfazione che possono comportare. Nella strategia della bioeconomia invece non si pone al centro la quantificazione e il monitoraggio dei flussi di prelievo dal mondo biologico per commisurare l’entità dei prelievi delle risorse alle capacità biogeniche, vale a dire di rigenerazione negli ecosistemi nei tempi dovuti. Eppure ciò dovrebbe essere alla base della sostenibilità, assieme all’attenzione di prelevare ciò che è la “rendita” possibile dagli ecosistemi senza distruggere il capitale che quella rendita produce. Intuizioni in tal senso sono oramai datate (l’economista Herman Daly e formulò nel 1972) ma non le vediamo trasposte nella strategia sulla bioeconomy). La misurazione della “competitività” effettuata col P.I.L. nulla dice dei riflessi dell’economia sul benessere dei cittadini.
L’Unione Europea produce documenti ricchi di principi generali e condivisibili ed enfatizza l’integrazione fra tutti i settori d’intervento. Purtroppo in fase di applicazione tali principi spesso si rilevano generici e arrivano persino a produrre l’effetto contrario rispetto alle finalità originarie per cui erano stati postulati. Un esempio è l’Agenda 2030, stilata in sede delle Nazioni Unite e fatta propria dall’Unione Europea. L’importante il documento determina gli impegni sullo sviluppo sostenibile che dovranno essere realizzati entro il 2030, individuando 17 obiettivi globali (SDGs – Sustainable Development Goals) e 169 target, prevede, d’interesse per il nostro discorso sulla biodiversità, che:
L’agricoltura (Obiettivo 2) ha un ruolo di primo piano all’interno di qualsiasi prospettiva di sviluppo sostenibile, dal momento che è un settore intrinsecamente legato a questioni quali l’occupazione, l’alimentazione, l’aria, i cambiamenti climatici, le risorse idriche, il suolo e la biodiversità;
Assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni” (obiettivo 7);
Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti (obiettivo 8).
Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo (obiettivo 12).
Promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico (obiettivo 13),
Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile (obiettivo 14). .
Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre, gestire sostenibilmente le foreste, contrastare la desertificazione, arrestare e far retrocedere il degrado del terreno e fermare la perdita di diversità biologica (obiettivo 15).
L’Unione però dispone incentivazioni statali all’impego delle biomasse legnose ad uso energetico-industriale che oltre a contraddire i predetti principi perché apre ai disboscamenti, si pone in contrasto con numerose direttive, dalla Direttiva Habitat 92/42/CEE passando per la Framework Water Directive (FWD 60/2000/CE) che istituisce un quadro europeo per la difesa dell’acqua, ancorato molto alla difesa e al ripristino della biodiversità degli ambienti acquatici) alla 2007/60/CE concernente la difesa dalle alluvioni. Il disboscamento contrasta inoltre con gli impegni sul clima assunti con gli accordi nel corso della COP 21 di Parigi nel dicembre 2015.
Il rischio della Strategia sulla bioeconomy, pertanto, è che si possa procedere alla sostituzione dei combustibili fossili per produrre energia con le biomasse legnose, cellulosiche e organiche in genere.
Questo rischio va monitorato e scongiurato per i seguenti motivi:
Bruciare massivamente legno o materia organica, non è neutrale rispetto alle emissioni di carbonio in atmosfera, come si vuol far credere da parte di settori che lucrano su queste attività, appoggiati da qualche accademico, ma è, al contrario, fortemente aggravante della crisi climatica . L’anidride carbonica emessa, infatti, non è solo quella che deriva dal legno combusto e quindi dal carbonio accumulato dall’albero attraverso la fotosintesi. Vanno considerate le emissioni prodotte nelle fasi del cantiere forestale per l‘approvvigionamento delle biomasse: consumi di carburante per le macchine operatrici, per l’apertura di piste nel bosco, per il taglio dei tronchi e dei rami, per l’accatastamento, per l’esbosco, trasporto, per il carico su camion fino alla nave o ferrovia dirette alla centrale elettrica, per lo scarico, per la cippatura e riduzione i pellet… Se solo si analizza il bilancio complessivo delle operazioni di filiera già si vede che la presunta neutralità non esiste, ma c’è di più. L’uso energetico delle biomasse :
? richiede approvvigionamento notevole di materia prima perché il legno ha un basso potere calorifico;
? non considera il fattore tempo di rinnovazione del bosco e il tempo di perdita di funzione: mentre la combustione aggrava immediatamente la crisi climatica, alberi piantati ex novo dovranno crescere e passeranno decenni prima che possano svolgere le stesse funzioni di quelli distrutti (ecosistemiche e di assorbimento della CO2) e tutto questo tempo invece per fronteggiare la crisi climatica non c’è;
? non considera, per le biomasse legnose, che buona parte del carbonio non si trova solo nel tronco e nei rami ma anche nel suolo: la lettiera e l’humus assorbono carbonio fino ad 8 volte più che il legno e lo immobilizzano per tempi lunghissimi;
? non considera la quota, rilevante, di carbonio esalato dalla respirazione delle radici dell’albero, che non interessa l’aria ma viene assorbito nel sottosuolo perché si discioglie come acido carbonico nell’acqua e questo acido debole, nell’interazione con le rocce, regola il ciclo dell’acqua dal punto di vista quantitativo e qualitativo;
?Sottrae carbonio ai suoli ove costituisce fattore di fertilità, per immetterlo in atmosfera ove è già in concentrazioni eccedenti i limiti di tolleranza dell’ecosistema globale. Così il suolo “muore di fame” e l’atmosfera “di indigestione”.
Inoltre la combustione delle biomasse legnose produce inquinamento atmosferico soprattutto da PM10 e da PM2,5 , più di qualsiasi altra fonte producendo migliaia di morti premature/anno.
Una strategia sulla bioeconomy dovrebbe pertanto, per coerenza e affidabiltà, intanto revocare gli incentivi statali alle biomasse e rinunciare soprattutto all’utilizzo energetico industriale del legno e chiarire, senza possibilità di equivoci, che il suo uso va ammesso e incentivato per tutte le finalità nobili, in sostituzione della plastica, come materiale da opera per cantieristica navale, infissi, pavimenti, tetti, case, strumenti musicali… Basterebbe scrivere che il legno va utilizzato in qualsiasi modo purchè il carbonio in esso contenuto resti il più possibile allo stato solido. Sostenibilità significa rispettare il patrimonio arboreo esistente e incrementarlo a partire dagli ambienti urbani e periurbani. E’ possibile, secondo calcoli attendibili, lasciare indisturbato alla libera evoluzione naturale almeno il 50% del patrimonio forestale italiano perchè le foreste non sono solo serbatoi di legname, ma svolgono una molteplicità di funzioni sul clima, sul ciclo dell’acqua, sulla qualità dell’aria e sono scrigno di biodiversità. Il restante 50% può fornire utilità se gestito con criteri di selvicoltura ecologica, nel rispetto delle funzioni ecosistemiche anche potenziali, della biodiversità, del paesaggio.
Una bioeconomia effettiva, in conclusione, non può basarsi sull’uso energetico delle biomasse siano esse solide, liquide o gassose. Intraprendere una strada simile significa tra l’altro un ritorno al passato, al medio-evo quando c’era solo il legno per riscaldarsi, cuocere i mattoni, lavorare il ferro e il vetro. Significa ancora e distrarre l’attenzione, gli sforzi, i finanziamenti e gli interventi dalla rivoluzione energetica del futuro che bussa alle porte e che è basata sull’impiego dell’idrogeno quale vettore energetico, prodotto per elettrolisi dell’acqua da fonti pulite, appropriate e rinnovabili.
Anche le forzature sulla disciplina dei paesaggi montani hanno contribuito all’annullamento del Piano Territoriale Paesaggistico Regionale del Lazio; una occasione per ripensare le strategie per le montagne del Lazio e arrestare la devastazione del Terminillo
La Corte Costituzionale, con sentenza pubblicata pochi giorni fa, ha annullato il Piano Territoriale Paesaggistico Regionale (PTPR) del Lazio, e lo ha fatto perchè la Regione Lazio ha violato il principio di leale collaborazione tra istituzioni.
Il testo del PTPR concordato con il MiBACT come legge impone, infatti, avrebbe dovuto essere approvato tal quale dal Consiglio Regionale, che di converso ha licenziato un testo modificato in più parti e contenente norme che scardinano l’obbligo di copianificazione Stato-Regione e che allentano le tutele di molti beni paesaggistici tra cui le aree montane, dove il PTPR manomesso avrebbe consentito la realizzazione di impianti sciistici, impianti di innevamento artificiale e attrezzature ricettive al di sopra della fascia dei 1200 metri.
Questa disattenzione nei confronti della tutela paesaggistica della montagna purtroppo non sorprende.
Da anni – attraverso le ripetute osservazioni presentate nell’ambito delle procedure di VIA del progetto Terminillo Stazione Montana (TSM) – il Comitato del #noTSM ha rilevato come la Regione Lazio interpretasse in maniera ingiustificatamente estensiva le norme del PTPR, e come tali interpretazioni collidessero in maniera sostanziale anche con le Direttive Comunitarie, il tutto per consentire la realizzazione di un progetto devastante per il paesaggio e per l’ambiente, economicamente fallimentare e posto fuori dal tempo dal climate change.
Duole constatare che fino ad oggi questa insensibilità regionale è stata sostanzialmente condivisa dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Province di Frosinone, Rieti e Latina, che ha già emesso parere paesaggistico positivo sul TSM nonostante al tempo di formazione dell’atto fossero in vigore le norme più restrittive di quelle successivamente manomesse dalla Regione Lazio. Il nostro auspicio è che questa vicenda spinga la Regione Lazio a considerare con maggiore consapevolezza la tutela paesaggistica del suo territorio, e che tale consapevolezza si estenda anche alle strutture periferiche del MiBACT.
Settantacinque associazioni hanno inviato una lettera ai Ministri dei Beni Culturali, dell’Ambiente e dell’Agricoltura chiedendo di intervenire a difesa delle foreste italiane
Roma, 14 novembre 2020 – Settantacinque associazioni nazionali e locali hanno inviato una lettera-appello indirizzata ai Ministri dei Beni Culturali, dell’Ambiente e dell’Agricoltura chiedendo una maggiore tutela dei boschi italiani, attualmente minacciati da un eccessivo sfruttamento: le numerosissime sottoscrizioni mostrano quanto il problema sia reale e sentito dai cittadini. Una prova in più che quella interazione tra uomo e sistema naturale – riportata dalla Convenzione di Firenze del 2006 (Ratifica della Convenzione Europea sul paesaggio) e dal Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici – altro non è che un rapporto virtuoso uomo-natura caratterizzato da equilibrio e rispetto nello sfruttamento delle risorse naturali, equa distribuzione della ricchezza e un utilizzo lungimirante delle risorse ambientali. Una visione che vede quindi il paesaggio come la rappresentazione della simbiosi tra l’uomo e il suo territorio.
Questo appello è in risposta alle lettere, di ben altro tenore, indirizzate agli stessi Ministeri da parte di categorie professionali e forestali strettamente connesse al mondo produttivo e da certi ambienti accademici, nelle quali si invita a non tenere in conto del parere delle Sovrintendenze a tutela dei boschi in zona di vincolo. Le argomentazioni portate avanti dal mondo produttivo sono inaccettabili per chiunque abbia a cuore la tutela dell’ambiente e del patrimonio boschivo italiano: viene espressa una concezione del paesaggio incentrata su una visione antropocentrica di mero sfruttamento delle risorse che risponde a logiche oramai sorpassate, in particolare in tempi in cui i cambiamenti climatici imporrebbero ben altro atteggiamento nei confronti del nostro patrimonio boschivo.
Il confronto su questi temi cruciali è appena iniziato: le numerose associazioni e comitati (un numero che continua a crescere) che hanno sottoscritto questo appello al rispetto delle leggi dello Stato non si sottrarranno al dibattito e altri approfondimenti non si faranno attendere. Le foreste italiane non possono essere lasciate in balia di chi le vede solo dal punto di vista produttivo-economico.
Lettera-appello ai Ministri dei Beni Culturali, dell’Ambiente e dell’Agricoltura per la tutela dei boschi
Roma, 11 novembre 2020
Egregi Ministri, da alcuni anni nella società civile sta crescendo la sensibilità per il paesaggio forestale, spesso deturpato da un tipo di selvicoltura non rispettosa degli aspetti ambientali e paesaggistici espressi dalle foreste. Ormai è consolidato e metabolizzato dal nostro ordinamento giuridico l’orientamento della Corte Costituzionale, che ha sottolineato proprio come ambiente e paesaggio siano beni comuni immateriali di preminente interesse pubblico, la cui salvaguardia deve costituire un limite all’utilizzo del legno prodotto dalle foreste.
Questo concetto giuridico non è tuttavia ancora pienamente recepito dalla legislazione vigente, che è tendenzialmente orientata a coordinare le numerose e discordanti legislazioni regionali nella comune visione del bene foresta inteso come risorsa economica da sfruttare, seppur nella dovuta regolamentazione.
La recente approvazione del TUFF (Dlgs 34 del 2018) ha bene espresso il contrasto ormai acuto tra gli interessi e le economie che hanno nei servizi eco sistemici culturali e di regolazione la loro primaria risorsa e le economie che utilizzano il bosco come fonte di materiale legnoso. Se è legittima la convivenza di queste economie, nel rispetto dei principi costituzionali, non possiamo tuttavia ignorare come l’approvazione del TUFF sia avvenuta con molte polemiche, non solo da parte della società civile organizzata in associazioni e comitati, ma anche dal mondo accademico delle scienze biologiche e naturali, mentre l’attuale impostazione filo-produttivistica del TUFF è stata voluta, scritta e difesa solo da una parte del settore accademico e della ricerca applicata del mondo forestale, forte dell’appoggio e del monopolio culturale del Ministero dell’Agricoltura.
Nella lettura del TUFF è inoltre evidente il contrasto che vi è stato tra il Ministero dei Beni Culturali e quello dell’Agricoltura, per ciò che concerne il delicato aspetto del coordinamento con il Codice dei Beni culturali e la questione del “taglio colturale” nelle aree tutelate o meno da provvedimento, espressa dal combinato disposto degli artt. 136, 142 e 149 del Codice. In tutto il testo legislativo il vincolo paesaggistico è trattato come un orpello all’utilizzo economico diretto del territorio forestale, tanto da aver creato un pericoloso e confuso regime di deroghe che rischia concretamente di rendere inapplicabile il regime di tutela.
Anche nelle aree tutelate da provvedimento amministrativo, dove ormai sembrava pacifica la supremazia del MiBACT sulle competenze regionali, la recente applicazione di questa norma, ribadita non solo dal precedente orientamento di questo Ministero, ma anche dal recentissimo “parere” relativo a un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, presentato da Italia Nostra nazionale, WWF Grosseto e Lac, sul piano antincendio della Pineta litoranea del Tombolo in Toscana, ha ingenerato forti conflitti. La Soprintendenza di Siena e Grosseto, in seguito a questo pronunciamento del Consiglio di Stato, ha applicato la richiesta di autorizzazione paesaggistica, per gli usi forestali in aree tutelate dal Codice dei Beni Culturali, anche sul Monte Amiata, da qui si è scatenata, da parte delle associazioni di categoria del comparto forestale e dall’Ordine degli Agronomi la pretesa di derogare alla legge, violata, o mal interpretata, forti della volontà di mettere a confronto, ovvero in contrasto, tutela paesaggistica versus libertà di impresa e quindi posti di lavoro a essa collegati.
La Soprintendenza, ha invece richiesto che sull’Amiata, nel rispetto della zona di vincolo, venisse lasciato un numero quadruplo di matricine rispetto al ‘governo’ a ceduo semplice, cosa che non inficerebbe le locali attività produttive, ma tutelerebbe invece il paesaggio, garantendo contemporaneamente l’assetto idrogeologico di quei pregevoli territori (già duramente provati dalle catastrofiche alluvioni dello scorso anno).
Si tratta dunque di una sleale e scorretta levata di scudi, del mondo delle imprese economiche e forestali, (dopo che le rispettive competenze erano già state ampiamente discusse, negoziate e chiaramente sancite nel TUFF) in nome di un giudizio di presunta “incompetenza” del personale delle Soprintendenze per giudicare gli aspetti paesaggistici della foresta, come se tutte le foreste fossero esclusiva competenza e proprietà del mondo forestale, e non anche bene comune di eminente interesse sancito dall’articolo 9 della Costituzione. Come evidenziato dai noti e autorevoli pareri dell’Ufficio Legislativo del MiBACT, la ratio della tutela provvedimentale, derivando dalla Legge Paesaggistica voluta da Benedetto Croce, è quella dell’aspetto estetico, nel quale le Soprintendenze hanno una storica e indiscussa competenza e supremazia.
Purtroppo la lettura del paesaggio effettuata dalle categorie professionali e forestali strettamente connesse al mondo produttivo, non tiene in considerazione che quella“interazione tra uomo e sistema naturale”, riportata dalla Convenzione di Firenze, Legge del 9 gennaio 2006 n.14 “Ratifica della Convenzione Europea sul paesaggio, Firenze 20 ottobre 2000” e dal vigente Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici, non può che essere quel rapporto virtuoso che denota equilibrio e rispetto nello sfruttamento delle risorse naturali, equa distribuzione della ricchezza e rispetto dell’utilizzo ragionevole delle risorse ambientali. Altrimenti tutto, indistintamente, sarebbe paesaggio, anche il rapporto predatorio dell’uomo sul territorio e in nome del quale si rischierebbe di compiere ogni scempio.
In particolare, la diffusione del ceduo rappresenta invece, da sempre, quel rapporto predatorio, consolidatosi con l’affermazione del moderno sistema economico. Il fatto che esista da molto tempo non ne giustifica il ruolo paesaggistico, così come non lo giustifica il solo concetto di casa che, pur esistendo da millenni, a causa della speculazione edilizia recente, ha devastato i più pregiati paesaggi del nostro paese. Ricordiamo che il primo bene paesaggistico tutelato nell’Italia Unita è stata proprio una foresta: la Pineta di Ravenna.
Attualmente, anche in base a recenti ricerche, risulta che il ceduo sia la forma di governo meno compatibile con la fornitura di servizi ecosistemici di regolazione e culturali e non lo si può, proprio per questo, definire una forma di gestione forestale sostenibile. Adesso quella “percezione delle popolazioni” che, secondo la Convenzione di Firenze, dovrebbe caratterizzare il paesaggio, si sta manifestando fortemente attraverso le associazioni ambientaliste riconosciute e i comitati dei cittadini, sui social e sulle piazze, in difesa delle foreste e del verde urbano, dando luogo alla più vasta manifestazione del pensiero libero, che chiede “il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Proprio in considerazione della complementarità del bosco e della natura allo sforzo lavorativo e produttivo, che non può ridursi al rapporto lavoro-salario, ma necessita di tempi e spazi di recupero spirituale e psicologico, che solo le foreste ben gestite sanno garantire.
Il ceduo estremamente diffuso e il taglio raso, privando il cittadino-lavoratore del bosco per un tempo troppo lungo rispetto al tempo della vita umana, provocano un vero e proprio “spaesamento”, una perdita di “paese” inteso come paesaggio e conseguente perdita di riferimenti culturali e psicologici, per questo sono da mettere al bando, almeno nelle aree tutelate ex art. 136 del Codice, e possibilmente da tutti i boschi, atteso che altri metodi di gestione garantiscono lo stesso, se non un maggiore reddito.
Le scriventi Associazioni esprimono innanzitutto solidarietà al personale delle Soprintendenze, che adesso deve sostenere il peso di queste ingiuste affermazioni di incompetenza. A tutti coloro che tutelano il paesaggio vanno il nostro appoggio e la nostra stima.
Auspichiamo che Lei, signor Ministro dei Beni Culturali, non arretri di un millimetro di fronte alle richieste di smantellamento della tutela paesaggistica che le sono pervenute e le perverranno, anche tramite il Ministero dell’Agricoltura.
Auspichiamo inoltre che Lei, Signor Ministro dell’Ambiente, si faccia parte attiva per una maggior tutela degli ecosistemi forestali, in particolar modo nella Rete Natura 2000 e nelle aree protette, dove il TUFF ha inteso indebolire le Sue competenze a favore di quelle delle Regioni e del Ministero dell’Agricoltura.
Auspichiamo che Lei Gentile Ministro dell’Agricoltura, a cui inviamo il presente appello per Sua conoscenza, intenda prendere opportuni provvedimenti al riguardo.
Cordiali saluti
Mariarita Signorini già Presidente nazionale, ora Consigliere di Italia Nostra
Daniele Zavalloni – Presidente Ecoistituto – Cesena
Stefano Deliperi – Presidente Grig (Gruppo d’intervento Giuridico)
Giovanni Damiani – Presidente GUFI (Gruppo unitario foreste italiane)
Roberto Romizi – Presidente Associazione medici per l’Ambiente ISDE Italia
Vittorio Emiliani – Presidente Comitato per la Bellezza
Rita Paris – Associazione Bianchi Bandinelli
Stefano Allavena – Presidente di Altura
Emilio Delmastro – Federazione nazionale Pro Natura
Laura Cadeddu – CATS Consulta Ambiente e Territorio della Sardegna
Francesco Saccomanno – Forum Ambientalista – Calabria
Leonardo Rombai – già Professore ordinario di geografia storica Università di Firenze
Ferdinando Laghi – Associazione ‘Solidarietà e Partecipazione’ – Castrovillari
Nella giornata del 25 settembre 2020, si è tenuto a Roma, una conferenza dal titolo “La strategia europea di bioeconomia: scenari e impatti territoriali, opportunità e rischi” alla quale hanno preso parte Società scientifiche, Università e Centri di ricerca. Sono intervenuti il presidente Giovanni Damiani e il vicepresidente Bartolomeo Schirone dell’associazione GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane, per illustrare gli impatti della bioeconomia sulla biodiversità e sulle foreste.# E’ stato dunque affrontato il discusso tema della bioeconomia, definita dalla Commissione europea, attraverso una sua proposta realizzata nell’anno 2012, come un’opportunità d’uso delle risorse biologiche come materie prime per la produzione di energia (Innovating for Sustainable Growth: A Bioeconomy for Europe aggiornata nel 2018).
La bioeconomia di cui si parla oggi, è solo un falso modello di sostenibilità, ambiguamente presentato come una possibilità attuabile e sostenibile, in cui vengono ridotte le emissioni di carbonio, ma ancora una volta, le risorse naturali vengono assottigliate, con una condotta antropocentrica. Nella strategia “Innovating for Sustainable Growth: A Bioeconomy for Europe”, infatti, emerge l’implicita intenzione di alterare i preziosi equilibri della natura e le sue ricchezze, perché il sistema ambiente, ancora un volta, viene trasformato in un erogatore di servizi e beni preziosi da sottrarre senza tregua. E’ chiaro che la domanda mondiale sia un’inevitabile conseguenza della crescita della popolazione nel mondo e del sempre più ingente rischio di esaurimento terminale delle risorse, ma, per ovviare alle pressioni sull’ambiente, è indispensabile intraprendere una svolta radicale nelle modalità di produzione, di distribuzione e di trasformazione dell’energia ed è altresì fondamentale saper scegliere dove attingere le risorse.
Come potremo ricorrere alla bioeconomia oggi? La risposta non sarebbe da indagare nel suffisso “bio”, ma proprio nel termine “economia”, il cui significato è ”casa”: la svolta sarebbe ripartire dalla nostra casa, in sensu lato dalla nostra società, con un’ottica inedita: una società che si riscopra parte integrante della natura, che possa prestare ascolto ed assecondare i ritmi naturali, senza mai doverli manipolare, per non incorrere nella distruzione, non costringendo l’assetto del territorio a cambiare a nostro piacimento, conturbando gli spazi territoriali a favore di sempre più impianti di colture produttive, abbattendone i tempi di crescita, con la perdita di ricchezza di diversità biologica e di protezione dal dissesto idrogeologico.
Oggi, abbiamo bisogno di ispirarci a dei modelli di riferimento, passati e presenti, come gli economisti Georgescu-Roegen e Latouche, che nel 2020, ai sovraumani ritmi a cui siamo costretti, potrebbero risultare anacronistici, ma invece, rappresentano la chiave di svolta per la nostra società: “più è meglio” diventerebbe “poco è abbastanza”. Così, potremo riscoprirci parte di questa Terra, camminando in punta di piedi sugli esili fili che si intrecciano nella preziosa trama del complesso equilibrio della natura, denudando le orecchie ai suoi meravigliosi suoni ma anche ai suoi meravigliosi silenzi.
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