Sul Fatto Quotidiano del 19 gennaio u.s. è comparso un articolo firmato da Renzo Motta e Giorgio Vacchiano dal titolo “Le foreste italiane meritano un’informazione migliore”. Nel loro scritto i due autori, noti sostenitori di un approccio antiecologico alla gestione delle foreste, sostengono tesi che, lungi dal fornire “un’informazione migliore”, risultano prive di fondamento scientifico, fuorvianti e a volte addirittura irrispettose del buon senso.
Di seguito si riportano i commenti all’articolo di Motta e Vacchiano inviati da alcuni esperti alla redazione del Fatto Quotidiano.
Cara Redazione,
considero Il Fatto Quotidiano l’unico giornale veramente libero dell’Italia. Vi seguo da anni e condivido la vostra impostazione nel raccontare i fatti. Per questo sono veramente meravigliato e anche amareggiato per lo spazio dato a Motta e Vacchiano per raccontare una verità distorta sui tagli delle foreste italiane e sulle centrali a biomasse.
L’articolo dice molte cose inesatte mescolate ad alcune verità ma inserite in un contesto alterato. Le foreste italiane sono certamente in aumento rispetto a 100 anni fa, ma occorre sapere che la data di riferimento è quella nella quale la superficie forestale italiana ha toccato il minimo storico. È una informazione fuorviante dire che le nostre foreste sono in aumento senza ricordare che siamo di gran lunga al disotto della superficie forestale potenziale ed inoltre senza dire che il volume medio dei boschi italiani è di 159 m3 ad ettaro contro i 360 m3 di Austria e Germania (veri paesi con economia forestale). È folle spingere ora sulle utilizzazioni boschive come se fossimo un paese ricco di boschi e pigro nello sfruttarli.
Per raggiungere i paesi forestalmente più avanzati dovremmo continuare ancora 50 anni con questo tasso di prelievo. Aumentarlo vuol dire solo allontanare questa data. Oltretutto la gran parte del prodotto dei nostri boschi è di scarsa qualità e destinabile solo al mercato delle biomasse a scopo energetico.
Chi spinge ora per il taglio dei boschi (come gli autori dell’articolo) favorisce solo (volontariamente o involontariamente) la lobby delle biomasse, dietro la quale ci sono speculatori senza tanti scrupoli. La filiera legno/biomasse è una filiera economicamente drogata, che fa guadagnare pochi sui finanziamenti pubblici, a scapito del popolo italiano che si trova con meno boschi e meno soldi. Guardate cosa succede alla centrale a Biomasse del Mercure in Calabria.
Le centrali a biomasse sono pericolose per la salute delle persone e dell’ambiente (distruggono i boschi e il verde urbano e emettono anidride carbonica e polveri sottili). Non si tratta di energie rinnovabili ma vengono lo stesso incentivate come tali. I boschi sono oggi uno dei più efficaci strumenti di lotta ai cambiamenti climatici e propugnarne lo sfruttamento di bassa economia è un delitto contro l’umanità (come ha detto anche il Prof. Mancuso).
Non possiamo preoccuparci dei tagli nelle foreste equatoriali e boreali e degli incendi forestali in Australia e poi appoggiare chi vuole spingere ad un insano incremento delle utilizzazioni forestali in Italia. È una follia sottovalutare quello che sta accadendo nei nostri boschi soprattutto quello che si vorrebbe far accadere a breve.
Il Fatto Quotidiano, che sta sempre dalla parte della verità e dalla parte dell’onestà, non può cadere in trappole come queste e spero che dia la possibilità di replicare.
Siete persone ascoltate e stimate, non potete veicolare un messaggio così sbagliato e pericoloso.
Buon lavoro,
Prof. Alessandro Bottacci
Docente di Conservazione della Natura, Università di Camerino.
Direttore del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna.
Spett. Redazione de Il Fatto Quotidiano,
scrivo per intervenire riguardo all’articolo pubblicato recentemente sul vostro giornale, nel quale vengono sostenute tesi, a nome degli esperti Motta e Vacchiano, a favore dei tagli nelle foreste italiane e per l’uso energetico del legno.
Ciò dipende dal fatto che le biomasse sono considerate energie rinnovabili.
La logica seguita è la seguente: bruciando un albero, liberiamo in atmosfera una quantità di CO2 che un nuovo albero, crescendo fino alle dimensioni del primo, riassorbirà integralmente: con bilancio complessivo neutro, pari a zero.
Ma questo ragionamento è fallace, per vari motivi;
1) Le biomasse sono gravemente climalteranti: per ogni kW ora di elettricità prodotta con biomasse legnose viene emessa 1,5 volte la CO2 emessa col carbone e 3 volte la CO2 emessa con gas naturale. Tale CO2 viene emessa in pochi secondi bruciando un albero di 100 anni e occorreranno altri 100 anni perché un nuovo albero (sempre che venga piantato!), crescendo, la assorba. E noi questo tempo non lo abbiamo: proseguendo con questo aumento, tra 100 anni le emissioni di CO2 avranno reso impossibile la vita umana sulla terra. Soprattutto, secondo il rapporto dell’8.10.2018, redatto a Incheon (Corea del Sud) dall’IPCC (Intergovernmental Panel for Climate Change, Gruppo Intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico dell’ONU), frutto di due anni di lavoro di 91 ricercatori di 44 paesi che hanno esaminato 6.000 studi e valutato 42.000 dichiarazioni di colleghi e governi, il riscaldamento globale supererà la soglia di +1,5 gradi nel 2030. Quindi sono disponibili solo pochi anni per invertire la tendenza e per diminuire significativamente le quantità di CO2 emesse in atmosfera non dobbiamo più bruciare combustibili fossili, e in primo luogo le biomasse legnose, che ne emettono più degli altri!
Oltre alle emissioni dirette della combustione, vi sono ulteriori importanti emissioni dovute al taglio e trasporto a distanza delle biomasse.
Infine, gli accordi internazionali prevedono che la biomassa importata per la combustione non venga conteggiata nel bilancio delle emissioni del paese importatore e ciò aggrava notevolmente il bilancio effettivo della CO2 emessa dalle nostre centrali.
2) Soprattutto, le biomasse uccidono circa 20.000 italiani ogni anno. Il calcolo è semplice e preciso: l’Agenzia Ambientale Europea-EEA (Air Quality in Europe, Report 2018) attribuisce all’Italia (dati riferiti al 2015) 60.600 morti precoci ogni anno per il PM2,5 atmosferico. Secondo ISPRA, circa la metà del PM2,5 è secondario e circa la metà è primario emissivo; sempre secondo ISPRA oltre il 68% del PM2,5 primario emissivo è emesso dalla combustione di tutte le biomasse solide (dalle stufe alle centrali). Le biomasse, quindi, causano con certezza circa 20.000 morti precoci ogni anno. Ci sono poi malattie e morti in più, difficili da stimare come numero, dovute alle emissioni di diossina e furani, mercurio, arsenico, IPA, ecc., che vengono liberati bruciando legno. Una parte di queste morti precoci è dovuta alle emissioni di PM2,5 delle centrali a biomasse direttamente incentivate con denaro pubblico dal GSE (causando come minimo circa 1500 morti/anno), ma di fatto tutta la combustione del legno viene incentivata in vari modi (IVA agevolata, ecc.) e ciò è assolutamente inammissibile. I dati sono costanti: ad esempio, l’Air Quality in Europe, Report 2019, da poco uscito, certifica una lieve diminuzione, cioè 58.600 morti precoci/anno in Italia per PM2,5 (dati riferiti al 2016), ma ISPRA, che è avanti di un anno rispetto all’EEA, nel suo “Inventario nazionale delle emissioni in atmosfera 1990-2017, Informative Inventory Report 2019”, anch’esso da poco uscito, certifica che nel 2017 vi è stato un aumento del PM2,5 emissivo in atmosfera, totalmente dovuto alle emissioni delle biomasse che sono incrementate del 9,4% ripeto al 2016. Di conseguenza si può prevedere che le morti precoci stimate per il PM2,5, nel prossimo Report EEA che sarà riferito al 2017, segneranno un nuovo aumento per l’Italia.
Non è ammissibile che per le pressioni delle “lobby del legno”, cioè delle industrie che producono pellet, caldaie, centrali a biomasse, ecc. e di coloro – agronomi e ditte forestali – che traggono lauti guadagni dai progetti di taglio degli alberi, lo Stato Italiano debba incentivare la combustione del legno che ogni anno uccide, dati alla mano, oltre 20.000 suoi cittadini: quando l’uso del gas naturale, che produce 2.000 volte meno PM2,5, produrrebbe 2.000 volte meno morti precoci, cioè 10 (dieci) morti/anno anziché ventimila!
Ed è parimenti inammissibile che la Società pubblica partecipata “Ricerca Sistema Energetico, RSE S.p.A.”, in data 25/11/2019 su un dossier concernente “Energia delle Biomasse legnose” possa impunemente sostenere tesi opposte alle concordi evidenze scientifiche affermando: a) che le emissioni di CO2 delle biomasse siano “del tutto equivalenti al fotovoltaico (clamoroso falso, come sopra indicato); b) che le emissioni di particolato siano drasticamente ridotte dai filtri a maniche. E’ vero l’opposto. ISPRA, nell’Italian Emission Inventory 1990-2017: Informative Inventory Report 2019 riferito alle emissioni 2017, mostra come nel settore M2, composto al 99% dalla combustione di tutte le biomasse legnose, le emissioni di PM2,5 siano aumentate di quasi il 10% rispetto al 2016. Sempre ISPRA ha comunicato che il tasso di emissione attuale delle biomasse legnose sia di 388g di PM2,5 per ogni Gj di energia prodotto (312g/Gj per le centrali a biomasse). Ciò conferma il fatto, anch’esso scientificamente verificato, che le dimensioni delle polveri sottili emesse dal legno siano dell’ordine della nanoparticelle (diametro dell’elica del DNA), che nessun filtro è in grado di trattenere. Non è possibile che interessi economici debbano portare ad affermazioni false da parte di società partecipate dallo Stato, tacendo inammissibili rischi per la vita delle persone!
3) Senza incentivi, produrre energie da biomasse può essere antieconomico e l’energia utilizzata può addirittura superare l’energia prodotta! Lo dimostrano vari studi riportati nell’articolo “Le biomasse legnose non sono vere energie rinnovabili e il loro uso causa gravi effetti sulla salute” (Corrieri, 2019).
4) Le biomasse comportano rischi di incendi e di infiltrazioni mafiose. Secondo il Procuratore di Cosenza Mario Spagnuolo e il Capo della Protezione civile regionale calabrese Carlo Tansi (Avvenire.it del 9.8.2017), dietro gli incendi nel Parco della Sila ci sono aziende forestali, che riforniscono di legname le centrali elettriche a biomasse. Infatti, gli alberi bruciati mantengono un 70% di potere calorico e vengono cippati e bruciati nelle centrali. Senza incendi, nel territorio di un Parco nazionale nessuno avrebbe potuto toccarli.
5) Le biomasse sono responsabili del taglio generalizzato degli alberi. Stanno causando la distruzione delle nostre foreste e delle alberature delle nostre città. Il consumo italiano di biomasse forestali vergini, secondo GSE (2017), tra elettrico e termico è circa 52 Mton/anno mentre secondo ENEA (2017) disponiamo “solo” di 26 Mton/anno di biomasse vergini: la metà! Per mantenere accese le centrali stiamo deforestando e tagliando alberi dappertutto con le più varie motivazioni, ovviamente surrettizie. Viceversa, stanno emergendo sempre maggiori evidenze di come sia fondamentale difendere, mantenere e sviluppare alberi e foreste senza tagliarli. Sul numero di aprile 2019 di Nature è stato pubblicato un importante articolo scientifico che mostra come solo le foreste lasciate alla loro evoluzione naturale, ricche di biodiversità, possano essere potentemente efficaci nel fissare la CO2 in eccesso rimuovendola dall’atmosfera. Le foreste vergini possono salvarci mentre le piantagioni di nuovi alberi, secondo gli autori, non sono parimenti efficaci. Un grande albero maturo rimuove dall’atmosfera CO2 e inquinanti per un fattore di 50 volte maggiore rispetto a un albero appena piantato per sostituirlo. Se continuiamo a tagliare alberi e ripiantarli, andremo verso la rovina. Un articolo apparso sul numero di Science del luglio 2019 mostra come, se piantiamo nuove foreste escludendo le aree agricole e urbane, c’è spazio sulla Terra per circa un miliardo di ettari in più di copertura arborea che, se lasciata a sé stessa, potrebbe immagazzinare fino a 205 Gton di carbonio in più: esattamente la quantità che secondo l’IPCC occorre togliere dall’atmosfera per impedire il disastro climatico! Le foreste ci salverebbero da sole: basterebbe incrementarle e restaurarle smettendo di tagliarle. Queste sono le verità da dire a coloro che promuovono il taglio degli alberi!
6) Cominciamo ad avere anche evidenze scientifiche dirette di danni alla salute: danni respiratori, neurotossici e aumento del rischio cancerogeno sono stati dimostrati da vari studi sui lavoratori e sugli abitanti vicino alle centrali a biomasse (cfr. Corrieri, 2019).
Data l’estrema importanza per la salute delle persone e la possibilità di evitare ventimila morti precoci ogni anno in Italia, chiedo formalmente, come Coordinatore per il Centro Italia di ISDE-Medici per l’Ambiente, di poter essere ascoltato da Codesto spett. Giornale, assieme ad altri scienziati e ricercatori che potranno meglio illustrare a voce i dati qui solo accennati.
Dott. Ugo Corrieri
Coordinatore di ISDE- Medici per l’Ambiente per il Centro Italia
Spett. Redazione,
intervengo sull’articolo pubblicato con grande spazio e rilievo sul Fatto, in cui Motta e Vecchiano lanciano sostanzialmente un messaggio a favore dei tagli nelle foreste italiane e per l’uso energetico del legno (a prescindere dal ministro che ne ha maggiore competenza). Scrivo perché quelle sono posizioni assai pericolose per l’ambiente, per l’aggravamento della crisi climatica e per la salute, basate su verità riduttive, parziali o distorte.
Le foreste italiane sono certamente in aumento rispetto al secolo scorso, ma non ci viene detto che il periodo preso a riferimento per giustificare questo incremento che si vuole fare apparire strepitoso e da taluni addirittura eccessivo è quello in cui le nostre foreste erano ridotte già ai minimi termini storici. Se prendessimo a riferimento, invece, periodi preindustriali (cosa non assurda se consideriamo la longevità di moltissime specie arboree che solo oggi iniziamo a conoscere con lo studio degli anelli annuali di accrescimento, scoprendo alberi che dal medioevo sono arrivati, vivi e sani, fino a noi e che continuano a riprodursi), in cui sarebbe stato possibile viaggiare da Roma a Parigi passando senza soluzione di continuità tra i boschi, il giudizio sarebbe stato molto diverso. E lo sarebbe stato ancora di più se avessimo preso a riferimento la superficie forestale necessaria per abbattere parte consistente dell’anidride carbonica immessa in eccesso in atmosfera o la superficie potenzialmente idonea al rimboschimento. Con questi riferimenti avremmo, come conclusione, che occorre rispettare il più possibile il patrimonio arboreo esistente, lasciarlo alla sua evoluzione naturale e impiantare nuovi alberi (aggiuntivi e non sostitutivi di quelli abbattuti) ovunque possibile, incluso l’ambiente urbano, e saperli amministrare.
Il contenuto dell’articolo non è accettabile perché lascia intendere una presunta “invasione” in atto da parte dei boschi che, come rappresentata, non tiene conto della loro qualità. “L’Italia è ricca di boschi…poveri” . Così, con apparente ossimoro, sintetizzava la situazione nazionale Alfonso Alessandrini, per 15 anni Capo del Corpo Forestale dello Stato. Infatti non si può mettere sullo stesso piano per qualsiasi aspetto (ecologico, estetico, dei benefici ecosistemici resi all’uomo, per la biodiversità che è in grado di ospitare, per la stabilizzazione idrogeologica, ecc.) una foresta vetusta o semplicemente evoluta con boschi giovani, di neoformazione, che hanno alberelli che andrebbero considerati infanti e che non sono ancora evoluti come bosco vero e proprio, nelle sue successioni naturali.
In questo periodo storico in cui studi scientifici raccomandano il rispetto dei boschi come principali alleati per contrastare la crisi climatica, in Italia vengono abbattuti alberi su intere superfici boschive, lungo le strade extraurbane e nelle città, con intensità stupefacente, sotto la spinta dei generosi incentivi statali gravanti sulle nostre bollette elettriche. Sotto attacco, tra le maglie larghe della legislazione, persino boschi in aree naturali protette a livello regionale, nazionale o europeo come i cosiddetti SIC e ZPS. (Litorale Romano, Tombolo Grossetano, Caprarola..) Eppure è scientificamente dimostrato che produrre energia bruciando legna ha un rendimento di gran lunga inferiore a quello di altre fonti, è fortemente climalterante e non è neutro come si vuol far passare: nei bilanci non si considerano (oltre al dispendio di energia fossile per taglio, accatastamento, trasporto, cippatura, ecc…) il carbonio fissato nel legno, negli apparati radicali, nella lettiera e nell’humus al suolo (di gran lunga superiore a quello presente nei tronchi e nei rami), quello che viene inglobato nel ciclo dell’acqua come ione idrocarbonico, né la perdita della funzionalità ecologica del bosco eliminato.
La combustione del legno produce fumi assai nocivi per la salute. Conto è che questo avvenga in una stufa in montagna ove è assicurata ventilazione e diluizione nell’ambiente, e conto è che avvenga in città densamente popolate. I filtri comuni, infatti, seppure fossero adottati, non riescono ad abbattere efficacemente le polveri più fini (PM10 e PM2,5, notoriamente cancerogene): occorrerebbero tecnologie improponibili nelle stufe e negli impianti in genere, per costi, fabbisogno manutentivo, ingombri, per consumo di acqua necessaria… Così le stufe a pellet, in ambiente urbano, diventano fattori temibili per l’aumento di casi di cancro e ciò diventa assai grave in caso di inversione termica, fenomeno che si verifica quando l’aria fredda, pesante, si pone come un “tappo” o coperta su quella calda degli strati bassi impedendo la dispersione e la diluizione degli inquinanti e la città diviene una sorta di camera a gas. E’ stupefacente che non si consideri che un bosco non è un insieme di alberi, così come un giornale non è un mero assemblaggio di parole: parliamo di ecosistemi, di resilienza, di purificazione dell’aria, di formazione di suolo fertile, di ambienti complessi caratterizzati da un’infinità di relazioni e interrelazioni al loro interno che ci forniscono aria e acqua buona, una quantità di benefici ecosistemici che regolano la vita a livello globale.
Siamo per una selvicoltura ecologica e sostenibile, per usi nobili del legno in sostituzione della plastica. Ma oggi il quadro legislativo e la pratica non vanno in questa direzione perché non si distinguono i boschi di tutela da quelli da produzione. Secondo voi quando c’è da tagliare, le motoseghe verranno indirizzate verso le parti boschive dai tronchi e rami grandi che danno maggior profitto, oppure verso gli alberelli di neoformazione boschiva? Ecco dove porta l’assenza di valutazione della qualità dei boschi. E dire che in questo campo ci sarebbe una delle più straordinarie potenzialità di creazione di posti di lavoro qualificati (i tagli viceversa richiedono viceversa bassa manovalanza), se avviassimo una gestione selvicolturale ecosistemica ed effettivamente sostenibile.
Cordiali saluti,
Dott. Giovanni Damiani
Biologo, Presidente G.U.F.I. – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane, già Direttore dell’Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente.
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