da wp_10533428 | 13 Set, 2021 | Foreste, TUFF e SFN
Articolo pubblicato su L’Italia Forestale e Montana / Italian Journal of Forest and Mountain Environments 75 (2): 69-81, 2020 © 2020 Accademia Italiana di Scienze Forestali
di ALESSANDRO BOTTACCI
Direttore del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Professore a contratto di “Nature Conservation”, School of Biosciences & Veterinary Medicine, Plant Diversity and Ecosystems Management unit, University of Camerino; via Pontoni, 5 – 62032 Camerino (MC), Italy
Le foreste sono ormai universalmente considerate come sistemi complessi adattativi. La capacità adattativa di questi ecosistemi è direttamente proporzionale alla loro resistenza, resilienza e adattabilità/plasticità. Questi attributi sono, a loro volta, funzione del grado di biocomplessità (compositiva, strutturale e funzionale/relazionale) raggiunto dal sistema stesso.
Perchè una foresta possa raggiungere un elevato livello di complessità è necessario che siano assicurati un adeguato spazio fisico tridimensionale e un intervallo di tempo molto lungo.
Le foreste gestite sono spesso limitate nella superficie (a causa della frammentazione fisica o ecologica) e nell’altezza (a causa di tagli troppo precoci e intensi, che non permettono al piano delle chiome di occupare tutto il biospazio a disposizione); questo le rende più semplificate e quindi meno resilienti. Per quanto riguarda il tempo, frequentemente non si tiene conto della diversità tra tempo dell’Uomo e tempo delle foreste, tentando di accelerarne, in modo innaturale, la crescita e la successione delle fasi strutturali. La velocità è nemica della complessità, specialmente di quella relazionale, sulla quale si basa la capacità delle foreste di rispondere ai disturbi esterni.
Il cambiamento globale e le nuove sfide per il futuro del Pianeta richiedono un deciso cambiamento dei criteri e dei metodi di gestione forestale, considerando anche il grande valore degli ecosistemi lasciati alla libera evoluzione naturale.
Parole chiave: sistemi complessi adattativi; resilienza; biocomplessità forestale; foreste ad evoluzione naturale; spazio e tempo.
Citazione: Bottacci A., 2020 – Lo spazio e il temo per le foreste resilienti. L’Italia Forestale e Montana, 75 (2): 69-81. https://doi.org/10.4129/ifm.2020.2.02
INTRODUZIONE
La foresta è universalmente considerata un sistema biologico complesso autopoietico adattativo (Ciancio e Nocentini, 1996; Puettmann et al., 2009; Mes sier e Puettmann, 2011; Nocentini, 2011), cioè un sistema capace di autogovernarsi nel tempo attraverso le reciproche interazioni dei suoi componenti e di adattarsi alla variazione degli input ambientali esterni conservando la propria funzionalità (Puettman, 2014).
Le foreste seguono un ordine interno naturale, che possiamo definire un “ordine spontaneo” (Clauser, 2003), secondo il quale si accrescono e si sviluppano per stadi successivi, adattandosi all’ambiente nel quale si trovano. Si tratta di sistemi interattivi e compositi, costituiti da molti elementi diversi interagenti tra loro secondo i principi della teoria fisica della Criticità autorganizzata (Piovesan e Schirone, 1995).
Esse seguono sempre il percorso a minor dispendio energetico complessivo, passando da strutture più semplici a strutture più complesse, da uno stato metastabile a un altro, in conseguenza di processi innescati da eventi anche di piccola entità. Questo non avviene in modo totalmente lineare e prevedibile, ma secondo cicli adattativi (crescita, conservazione, collasso e rilascio, riorganizzazione) su diverse scale spaziali e temporali secondo i processi tipici della Panarchia (Gunderson e Holling, 2002; Allen et al., 2014).
Non si raggiunge mai un vero e proprio equilibrio ma il sistema si muove sempre sul confine tra disordine (caos, χάος) e ordine (cosmos, κόσμος), per rimanendo nello stadio dinamico della complessità (Messier e Puettmann, 2011).
La complessità diviene pertanto una condizione necessaria per limitare il rischio di cadere in quelle che Carpenter e Brock (2008) hanno definito “trappola della povertà”, quando il sistema è talmente semplificato da non avere nessuna possibilità di recuperare con le sue sole forze, e “trappola della rigidità”, quando il sistema è totalmente ordinato e diviene pertanto una struttura rigida e statica. In entrambe le condizioni il dinamismo del sistema si blocca. È quindi fondamentale che l’approccio alla gestione degli ecosistemi forestali si basi sui principi della teoria dei sistemi complessi, tenendo conto di tutte le componenti – e non solo della componente arborea -, delle numerosissime interazioni esistenti tra queste e della capacità di rispondere ai disturbi esterni. Nella gestione forestale la semplificazione non è ammessa. Una visione riduzionistica concettuale è fuorviante e foriera di gravi errori (Ciancio e Nocentini, 1996; 2003; Simard e Durall, 2004).
Possiamo considerare la complessità di un ecosistema forestale a tre livelli diversi ma necessariamente integrati tra loro:
− Complessità compositiva, legata soprattutto al numero di specie, animali e vegetali, presenti. Questa ricchezza è massima negli ecosistemi forestali intatti e ne determina il grande valore ambientale (Watson et al., 2018);
− Complessità strutturale, legata alla conformazione fisica della foresta (tipo di occupazione dello spazio, distribuzione dei volumi, rapporti allometrici delle componenti, ecc.). La complessità strutturale influisce positivamente su vari aspetti dell’ecosistema (biodiversità, resilienza, adattabilità, ecc.) (Franklin et al., 2004; Stiers et al., 2018);
− Complessità relazionale/funzionale, legata alla rete di relazioni tra le varie componenti del sistema e tra di esse e l’ambiente nel quale sono inserite. Possiamo includere in questa complessità anche la varietà di nicchie ecologiche presenti (Sabatini et al., 2010). La complessità relazionale è talmente varia e piena di retroazioni da potersi considerare come la componente più difficilmente misurabile o valutabile di un ecosistema (Mayr, 1988). Essa può essere anche espressa in termini di posizionamento dei vari componenti organici all’interno della complessa rete trofica. Questo posiziona mento non è casuale, ma segue un ordine preciso, misurato da quella che viene definita coerenza trofica, che, a sua volta, rende le reti più stabili (Johnson et al., 2014).
A questo proposito è importante anche segnalare i fondamentali studi sulla rete di ectomicorrize che, nel suolo, collega gli apparati radicali di una foresta, fungendo da sistema di comunicazione e di scambio di carbonio e di altre sostanze nutritive (Clemmensen et al., 2013).
Gli studi sulle foreste indisturbate (old growth forests) hanno permesso di comprendere, in modo più preciso e ampio, la biocomplessità naturale, i processi ad essa collegati, nonché i meccanismi che sottendono all’evoluzione dei sistemi forestali (Faliński, 1986; Faliński, 1988; Blasi et al., 2010; Stiers et al., 2018).
Uno dei risultati fondamentali di questi studi è aver compreso la stretta relazione tra biocomplessità e resistenza, resilienza e adattabilità degli ecosistemi forestali.
Aldilà delle molte definizioni esistenti, ai fini del presente lavoro ritengo che queste tre caratteristiche possano essere riassunte nel seguente modo:
− Resistenza: è la capacità di un ecosistema di mantenere il proprio equilibrio strutturale e funzionale di fronte ad un disturbo esterno.
− Resilienza: è la capacità di recuperare il proprio equilibrio qualora questo venga alterato da un disturbo esterno o anche “la capacità di tollerare disturbi senza collassare in uno stato qualitativamente diverso” (Holling, 1973).
− Adattabilità/plasticità: è la capacità di modificare la propria struttura in conseguenza di un cambiamento ambientale permanente senza perdere la propria funzionalità.
La stabilità di un ecosistema è strettamente legata alla sua capacità adattativa, a sua volta dipendente della sua biocomplessità (Colwell, 1998; Michener et al., 2001; Bottacci, 2014; Bottacci, 2018a). Si deve assolutamente tenere conto di questo assunto quando si vogliano conservare e gestire foreste in modo da tutelarne l’evoluzione e la stabilità dinamica.
Per favorire il raggiungimento e la conservazione di alti livelli di complessità degli ecosistemi forestali, dobbiamo considerare che essa è funzione di due fattori fondamentali: lo spazio ed il tempo (Clauser, 1991). Non tenendo conto di questi due fattori, come avviene troppo spesso in una selvicoltura a preminente finalità economica, si rischia di alterare in modo sostanziale la foresta, inficiandone il futuro, al solo scopo di massimizzare un ricavo attuale, oltretutto relativamente basso in relazione ai costi ambientali alti, come avviene nel caso della forma di governo a ceduo (Clauser, 1989).
LO SPAZIO
Lo spazio è un parametro fondamentale per le foreste. Prima che l’azione antropica riducesse in modo drastico la superficie forestale del nostro Pianeta, le foreste occupavano quasi la metà delle terre emerse, formando, in molti casi, estensioni di milioni di ettari senza soluzione di continuità. Ancora oggi questa riduzione non si arresta, continuando ad interessare, in modo drammaticamente preoccupante, anche le foreste primarie intatte (Potapov et al., 2017). Lo spazio è indispensabile perché si possa sviluppare pienamente la complessità sotto forma di mosaico di fasi del ciclo strutturale (rinnovazione, affermazione, esclusione, maturazione, diversificazione, crollo, ecc.). In questo modo, su una adeguata estensione, la foresta può raggiungere e mantenere uno stato nel quale i disturbi, pur presenti, hanno un’influenza limitata sul cambiamento della struttura generale e, anzi, aiutano a mantenere lo stato di complessità. Solo con una adeguata superficie, al di sopra di quella che si può definire la “superficie minima vitale della foresta”, si può avere l’insieme di piccoli e continui cambiamenti che interessano i componenti di quella data fitocenosi e dei suoi vari strati, che costituisco l’articolato processo della fluttuazione, ampliamente studiato da Faliński nella foresta primeva di Białowieża (Faliński, 1986; Faliński, 1988; Pedrotti, 2007).
La ricerca dei valori di questo parametro è ancora relativamente scarsa, nonostante si tratti di un argomento molto stimolante e basilare per la conservazione e la gestione delle foreste.
Harris (1984), nel suo fondamentale testo sulla frammentazione forestale, colloca tra 2 e 20 ha la soglia minima al di sotto della quale il sistema perde di efficienza.
Uno dei principi fondamentali della Biologia della Conservazione, contenuto nel 3° postulato di Soulé (1986), è il rapporto tra le dimensioni di una comunità e la sua possibilità di sopravvivenza: riducendo la superficie di un popolamento – ed io direi ancora di più il volume da essa occupato – diminuisce la sua vitalità e resilienza (Bellarosa et al., 1991).
Zacharias e Brandes (1989), citati in Bellarosa et al. (1991), hanno evidenziato una relazione lineare tra la superficie di boschetti isolati del Querco-Fagetea in Germania e la frequenza delle specie più rare. Questi autori hanno rilevato che, per avere la saturazione di tutte le specie, comprese le più rare, un popolamento doveva ricoprire una superficie continua non inferiore a 500 ha.
La riduzione delle superfici forestali, oltretutto, innesca le tipiche problematiche della frammentazione degli habitat (Diamond, 1975; Crooks e Sanjayan, 2006). In caso di superfici ridotte, la percentuale di area marginale (più disturbata) aumenta, rispetto a quella occupata dalla core area, agendo negativamente sulle varie complessità, specialmente sulla complessità relazionale.
Per una corretta valutazione dell’influenza dello spazio sulla stabilità degli ecosistemi forestali è fondamentale tenere conto che lo sviluppo strutturale delle foreste non è solo quello bidimensionale della superficie, ma quello tridimensionale del volume. Le foreste, rispetto agli altri ecosistemi terrestri naturali, tendono ad occupare molto più spazio anche in senso verticale, sia verso l’alto, con le chiome che possono arrivare fino ad oltre cento metri, che nel sottosuolo, dove le radici si possono approfondire di molti metri (ad es. fino a 7 m di profondità per le radici strutturali delle foreste tropicali) e rappresentare una notevole frazione della biomassa totale (circa il 20%) (Brunner et al., 2004; Crown, 2005; Galvagni et al., 2006; Lasserre et al., 2006).
Per questo possiamo affermare che le foreste sono soprattutto strutture verticali.
A questo proposito forniscono un’utile informazione gli studi sulle strutture forestali basati su un approccio allometrico, nei quali si mostra che l’occupazione dello spazio tridimensionale non è casuale ma segue un model lo basato sulla legge di potenza, che sottende un comportamento frattale. L’aumento dell’altezza del popolamento (nel caso specifico dell’altezza tipica degli alberi più alti), determina un aumento proporzionale del volume della foresta per unità di superficie. Al fine di massimizzare l’energia solare utilizzata, le foglie devono riempire quanto più possibile questo volume e lo fanno seguendo proprio una strutturazione frattale sia orizzontale che verticale (West et al., 2009; Enquist et al., 2009; Simini et al., 2010; Anfodillo et al., 2013; Sellan et al., 2017). In conseguenza di ciò la produttività di una foresta è funzione anche dello spazio verticale occupato.
Lo sviluppo della foresta nello spazio verticale, che possiamo anche defi nire “spessore ecologico” o “biospazio”, ha anche un valore ecologico. Esso determina gradienti di microclima che vengono occupati da specie e da comunità di specie differenti, contribuendo così ad aumentare la biocomplessità del sistema (Ishii et al., 2004; Nadkarni, 2010). Già molti anni fa Mac Arthur e Mac Arthur (1961) avevano evidenziato una relazione positiva tra altezza del piano delle chiome e ricchezza di specie di uccelli, attribuendola alla presenza di una maggiore disponibilità di nicchie ecologiche. Più recentemente Roll et al. (2015) hanno confermato questa relazione per tutti i vertebrati ed in parti colare per gli anfibi.
Cazzolla et al. (2017) hanno trovato una correlazione significativa tra la ricchezza di specie di piante vascolari e l’altezza media del piano delle chiome (considerato come indicatore del volume) sia a livello globale che macro climatico.
L’intervento umano altera questa stratificazione verticale di habitat e riduce la biodiversità del popolamento, soprattutto diminuendo l’altezza del piano delle chiome e semplificandone la struttura (Brokaw e Lent, 1999). Questo suggerisce l’opportunità di una maggiore attenzione al biospazio negli studi ecologici e nella pianificazione e gestione dei siti naturali. Le foreste intatte, infatti, mostrano come un ampio spessore ecologico (biospazio) favorisca la diversità verticale e contribuisca alla biocomplessità totale dell’ecosistema e, di conseguenza , alla sua funzionalità.
IL TEMPO
Il tempo è stato definito da Clauser (1991) come la quarta dimensione del bosco ed è una dimensione troppo spesso sottovalutata.
Un approccio semplicistico alle foreste tende a mettere in correlazione il tempo solo con l’incremento di volume degli alberi, dando addirittura un significato colturale di maturità alla culminazione dell’incremento stesso, nelle sue varie forme (corrente, medio, percentuale), culminazione che invece avviene sempre ad un’età del bosco molto bassa.
Occorre perciò chiarire che il tempo delle foreste non è il tempo dell’Uomo. Si tratta di due ordini di grandezza diversi. Considerare i tempi della foresta con il riferimento temporale dell’Uomo è uno degli errori fondamentali che hanno commesso e commettono molti forestali.
La lentezza – relativamente ai parametri umani – è la legge per la foresta (Wohlleben, 2016) ed è fondamentale tenerne conto.
Addirittura è stato evidenziato che proprio le piante ad accrescimento più lento sono quelle destinate a vivere più a lungo (Piovesan et al., 2019a; Piovesan et al., 2019b)
Le foreste hanno bisogno di tempo per poter evolvere passando da una fase strutturale all’altra (Leibundgut, 1978), fino allo stadio più evoluto possibile in quel luogo e in quel momento.
Raggiunto questo stadio le variazioni strutturali sono ancora più lente e indotte da disturbi naturali a bassa intensità (crollo di alberi o gruppi di alberi) o a grande intensità (tempesta di vento, incendio naturale, attacco parassita rio, frana, valanga, ecc.). In entrambi i casi, comunque, con tempi di ritorno, generalmente, molto lunghi. Questi disturbi sono importanti per la rinnovazione dell’ecosistema e per il mantenimento di una parte della sua complessità (Yamamoto, 2000).
Oltretutto la foresta non segue il ciclo vitale dei suoi componenti principali: gli alberi. Questi nascono, crescono, invecchiano e muoiono, rimanendo soggetti alle leggi del tempo, la foresta è invece soggetta “a una agitazione eterna” (Stevens, 1990 in Motta, 2018).
Il tempo sottende anche alla biocomplessità strutturale di una foresta. I parametri di altezza e volume sono evidentemente legati al tempo, ma anche lo sviluppo degli apparati radicali o la maturazione sessuale dei singoli componenti. La strutturazione e l’occupazione del biospazio (verticale, orizzontale, sopra e dentro al suolo) sono, come già ricordato, processi fondamentali che la foresta conduce secondo il modello della criticità autorganizzata. Questi processi organizzativi svolgono una funzione sintropica, cioè di bilanciamento della entropia (Schirone, in stampa). Come nel caso dell’entropia (secondo principio della termodinamica), anche la sintropia è funzione del tempo: col trascorrere del tempo, infatti, l’ecosistema aumenta la propria organizzazione funzionale e strutturale, tendendo spontaneamente verso una condizione metastabile, vicina al punto critico (Solé et al., 2002; Solé e Bascompte, 2006).
Il tempo influisce anche su una componente fondamentale dell’ecosistema forestale: il suolo. Il suolo è il frutto di interazioni tra componente organica, componente inorganica e clima, che a loro volta sono funzione del tempo. Un suolo forestale, per raggiungere stadi evoluti, richiede molti anni (talvolta secoli). Recenti studi hanno mostrato l’importanza, per la funzionalità e per la produttività degli ecosistemi forestali, della complessa rete di simbiosi che si formano nel suolo tra gli apici radicali delle piante arboree e le ectomicorrize (ECM) (Simard, 2009; 2018; Steidinger et al., 2019). Lo sviluppo di questa rete è legato alla presenza di alberi vetusti (detti alberi madre) e di un suolo evoluto, fattori questi che sono entrambi funzione del tempo e del non disturbo antropico. Un altro importante parametro dell’ecosistema forestale legato all’età del bosco, e quindi al fattore tempo, è la presenza del legno morto (Travaglini et al., 2012). È ormai universalmente riconosciuto il ruolo della necromassa per la conservazione della biodiversità (WWF Switzerland, 2004; Marchetti e Lombardi, 2006). Lasciare alla foresta il tempo per raggiungere le fasi strutturali più avanzate è fondamentale perché si accumuli in modo naturale una massa di legno morto capace di creare nicchie ecologiche tali da incrementare la biocomplessità e, in particolare, la rete trofica.
CONCLUSIONI
Da quanto detto appare evidente che vi sia un contrasto stridente tra la fondamentale importanza di concedere spazio e tempo agli ecosistemi forestali e le azioni, ancora troppo diffuse, di una “selvicoltura attiva” che prescinde spesso dalla conservazione del capitale produttivo e si concentra principalmente, se non esclusivamente, sul prodotto ritraibile in tempi brevi e sulle più ampie superfici possibili (Bottacci, 2018b), prescindendo spesso dall’attuale conoscenza ecologica e conservazionistica (Chiarucci e Piovesan, 2018).
Quasi sempre si continua a considerare il bosco non come un sistema complesso autopoietico, ma come un semplice insieme di alberi da utilizzare, insieme incapace di sopravvivere senza l’intervento dell’uomo, del quale non si considerano né le esigenze di spazio né quelle di tempo.
Come afferma giustamente Pedrotti (2007), il processo di sinantropizzazione delle foreste produce cambiamenti negativi, che portano alla degenerazione (impoverimento senza compromissione della fitocenosi originaria) e anche alla regressione (forma più grave dove le fitocenosi originarie sono sostituite da fitocenosi meno complesse e a fitomassa minore).
Olaczek (1974), già molti anni fa, considerava, tra le forme di degenerazione degli ecosistemi forestali, il ringiovanimento (juvenalization), cioè il mantenimento delle fitocenosi agli stadi iniziali a causa dei tagli periodici, che limitavano a pochi decenni il tempo a disposizione.
I tagli sono disturbi innaturali che, se si presentano con frequenze accelerate e su superfici ampie, possono innescare questi fenomeni di regressione, costringendo l’ecosistema forestale a permanere nei suoi stadi iniziali, più semplificati e meno stabili.
La biocomplessità è alterata da tagli intensi e ripetuti a breve distanza (con cambiamenti repentini nella struttura e composizione del sistema). È noto che negli ecosistemi forestali naturali o con basso disturbo antropico, la biocomplessità è maggiore anche a causa della presenza di molte specie rare e minacciate, quasi del tutto assenti in quelli gestiti (Christensen e Emborg, 1996).
Anche tenendo conto del ruolo prioritario delle foreste nell’attenuazione del global change, è fondamentale cambiare decisamente i principi di fondo della gestione, tenendo decisamente più in considerazione i parametri che abbiamo discusso nel presente lavoro: lo spazio e il tempo.
Una selvicoltura per le foreste del futuro dovrà innanzi tutto partire da un assunto, che forse a molti forestali apparirà “eretico”: partendo dal principio che, in generale, gli interventi di taglio rappresentano un disturbo innaturale per le foreste e che, d’altro canto, l’uomo ha la necessità di avere a disposizione i prodotti legnosi che le foreste forniscono, la corretta selvicoltura dovrà operare in modo da ottenere quanto serve all’uomo, riducendo al minimo il disturbo all’ecosistema forestale, contenendolo cioè entro i limiti della sua capacità resiliente e dando alle foreste lo spazio e il tempo di cui hanno bisogno.
Per ottenere questo risultato sarà fondamentale, prima di tutto, preservare la continuità ecologica della foresta; continuità sia in senso spaziale (evitando la frammentazione, fisica ed ecologica, dei popolamenti), sia in senso temporale (evitando repentini e frequenti cambi strutturali del popolamento stesso).
Fornendo agli ecosistemi forestali un adeguato spazio (almeno uguale o superiore alla superficie minima vitale) e un tempo indefinito (prescindendo quindi dalla definizione di turni), si potrà attuare anche una gestione che si può definire delle alte provvigioni, ottenendo foreste ricche di biomassa. In esse si potrà ottenere una ripresa importante, pur mantenendo molto basso il tasso di utilizzazione (parametro che, in qualche modo, può essere indicativo dell’entità del disturbo arrecato con i prelievi).
La continuità ecologica e l’intervento antropico nullo o di bassa intensità favoriranno la costituzione di popolamenti sempre più resilienti e quindi, secondo la definizione di selvicoltura data sopra, anche più capaci di supportare e sopportare una gestione con finalità economiche.
Come mostrato, lo spazio ed il tempo influiscono positivamente sulla bio complessità delle foreste; questa, a sua volta, è la base della resilienza che le rende stabili (Rist e Moen, 2013). Per cui la moderna gestione forestale non potrà più prescindere da questi due parametri. Di fronte alla riduzione continua delle superfici forestali della Terra (18 milioni di km2 di superficie forestale persi negli ultimi 8.000 anni) (FAO, 2018), alla loro pericolosa semplificazione e alla minaccia incombente dei cambiamenti climatici, diventa indispensabile liberarsi dalla visione antropocentrica (pericolosa eredità dell’Illuminismo), che attribuisce all’Uomo una capacità di indirizzo superiore anche a quella della Natura stessa, e imboccare la via di una decisa azione di “conservazione del processo naturale”.
In considerazione del loro grande valore, è ineluttabile fare una scelta radicale di rispetto per gli ecosistemi naturali indisturbati (tra i quali, in primo luogo, quelli forestali) (Watson et al., 2018), riservando loro la metà della Terra, come proposto da Wilson (2016), facendo così in modo che non vi siano limitazioni di spazio e di tempo all’espressione delle loro potenzialità.
da Valentina Venturi | 6 Apr, 2021 | Biodiversità, Foreste
di Giovanni Damiani – pubblicato sul Volume 2 di Simbiosi Magazine (https://www.simbiosimagazine.it/)
La vegetazione spontanea che si insedia lungo le rive dei fiumi, torrenti e ruscelli, viene chiamata “ripariale”. La sua struttura forestale è condizionata principalmente dalla vicinanza all’acqua. La troviamo pertanto anche sulle rive dei laghi, degli stagni e in zone umide o soggette ad allagamento e dove la falda freatica è raggiungibile dalle radici delle piante. La componente arborea è costituita, in Italia, soprattutto dalle Salicaceae, una grande famiglia che include tutti i pioppi e i salici. Essa è una componente fondamentale degli ecosistemi fluviali e ha caratteristiche molto particolari, acquisite nel corso dell’evoluzione naturale in prossimità all’acqua, del flusso della corrente, del regime idrologico e, non ultimo, dal clima.
Parliamo infatti di piante che hanno la capacità di avere il proprio apparato radicale in immersione perenne o per lunghi periodi nell’acqua, senza che le radici marciscano, e per questo vengono chiamate “freatofite”. Questa è una caratteristica importante, perché la falda freatica in prossimità di un corso d’acqua o di un lago è quasi sempre affiorante o giacente a poche decine di centimetri di profondità. Gli ambienti di acque correnti poi sono soggetti a scariche di piene e a esondazioni, con energie fortissime che tendono a trascinare via ogni cosa. Vicino a essi nessuna specie arborea a legname duro e rigido e che non abbia un solido ancoraggio nel terreno potrebbe sopravvivere e prosperare: a ogni piena le piante verrebbero spezzate ed eliminate fin dalla giovane età.
L’energia cinetica delle acque nel corso dell’evoluzione ha quindi avvantaggiato il tipo di vegetazione particolare adatta a vivere in un ambiente tanto ostile grazie alla flessibilità estrema dei rami e dei giovani tronchi, alla loro resistenza eccezionale alla trazione (vale a dire allo strappo), con solido ancoraggio a terra garantito da apparati radicali assai sviluppati, con diverse ed efficienti modalità di riproduzione e ad accrescimento rapidissimo adatto a fronteggiare i diversi regimi stagionali delle acque.
Salici e pioppi si riproducono infatti facilmente per polloni e per talea (riproduzione agamica, che praticamente è una clonazione). Attecchiscono con questa modalità anche in luoghi lontani da quello d’origine, perché un tronco sradicato da una piena o dal vento o un ramo verde spezzato e caduto in acqua può dare vita a un nuovo albero anche a molti chilometri di distanza dove sarà stato portato e depositato dalla corrente, in genere presso un’ansa.
Anche la riproduzione sessuata è molto particolare rispetto ad altre essenze forestali. I semi dei pioppi e dei salici, infatti, sono assai minuscoli e leggerissimi. Il frutto è una capsula che contiene semi a forma di bastoncino, in genere in numero di 8 – 10, esili, lunghi uno o due millimetri, privi di albume e quindi praticamente pressoché privi sostanze nutritive di riserva a differenza, ad esempio, dei frutti dei faggi (fagìole) o delle ghiande delle querce. Essi sono in grado di germinare immediatamente dopo essere stati emessi ma possono restare vitali, in quiescenza, per un periodo limitato, in genere solo di qualche mese, trascorsi i quali muoiono. I piccolissimi embrioni possono germinare poi solo in condizioni di suoli con elevata umidità. I generi Salix e Populu sono dotati tuttavia di semi non molto longevi.
Le Salicacee sono soggette, in generale, a facile ibridazione. Non è un limite al successo della loro riproduzione sessuale…anzi. Queste piante infatti impiegano la propria energia vitale per produrre una straordinaria quantità di semi, come possiamo vedere comunemente nei pioppi. Questi sono piante a sessi separati e gli esemplari femminili producono i propri embrioni leggerissimi, circondati da un arillo cotonoso espanso (comunemente chiamati “pappi”), in quantità straordinarie; questi si disperdono “veleggiando” nell’aria e possono essere trasportati dal vento a distanze incredibili; tuttavia per queste piante la modalità di propagazione aerea non è la sola a disposizione, perché ve ne è un’altra che potremmo definire di “microfluitazione” o di “drift”. Parliamo dei pappi depositatisi sull’acqua dei fiumi, galleggiando sulla superficie, che vengono trasportati a valle e in buona parte terminano il loro viaggio col posarsi su qualche parte del greto ove i semi possono germinare. Stocasticamente con questa strategia saranno molti i semi “fortunati” che troveranno condizioni idonee di sviluppo, iniziando ad emettere immediatamente una radichetta embrionale che diviene poi un fittone che si accresce in pochi giorni. Così, quando nel nostro clima mediterraneo arrivano le piogge e le piene autunnali-invernali, le plantule che hanno germinato per prima, flessibilissime, e che hanno già acquisito un ancoraggio radicale di 30 – 40 cm o più, piegandosi nella corrente divenuta forte minimizzano la propria esposizione all’acqua, riuscendo a non essere estirpate.
Tutta la struttura dell’albero sembra adattata allo scopo di una grande produzione di semi e a un accrescimento veloce. Il polline ad esempio è molto piccolo (25-30 millesimi di millimetro) ma molto abbondante e l’impollinazione può essere sia anemofila che entomofila. Osserviamo la foglia di un pioppo: ha un picciolo ben allungato, schiacciato lateralmente, con elasticità “giusta” perché possa oscillare su un piano sub-orizzontale al minimo spirare del vento. L’albero così può permettersi di avere tante foglie a lamine larghe che, come ogni altro albero, sono disposte per captare quanta più luce ma, nel nostro caso, c’è un vantaggio in più dovuto alla facilità e al “tipo” di movimento che fanno sì che molta luce solare possa filtrare anche negli strati di fogliame inferiori che viceversa rimarrebbero in semi-ombra. Questa particolarità fornisce all’albero maggiore capacità fotosintetica, un “motore biologico turbo” che è alla base della notevole velocità di accrescimento. Vista da lontano la massa delle foglie di un pioppo che oscillano al vento richiama alla mente il brulichio di una folla umana in un mercato o una festa padronale di paese: viene attribuito a questa similitudine il termine del genere , “Populus” (popolo). La flessibilità dei rami dei salici è tale che viene sfruttata fin dall’antichità per realizzare, intrecciati finemente, cesti assai leggeri e resistenti, nasse per la pesca fluviale e, in passato, persino per ponti per l’attraversamento dei corsi d’acqua, chiamati “ponti di fascine”.
In definitiva queste piante assommano in sé una molteplicità di strategie di riproduzione, di crescita e di adattamento che ne determina il successo evolutivo. Se è vero che la presenza del fiume con i suoi episodi di violenza ha determinato la selezione delle caratteristiche uniche di questa vegetazione, è altrettanto vero che essa ha determinato l’aspetto fisico e morfologico dell’ambiente fluviale e del paesaggio. Se non ci fosse questa vegetazione (unitamente a quella erbacea come Fragmites, Tipha, Carex, Scirpus che hanno le medesime caratteristiche di ancoraggio radicale, flessibilità e di resistenza allo strappo), i nostri corsi d’acqua apparirebbero come desolati canali con le ripe franose simili ai canyon del Rio Grande: la violenza delle acque avrebbe eroso, scavato e desertificato tutto l’immediato intorno.
La vegetazione riparia svolge diverse funzioni essenziali negli ecosistemi acquatici. Innanzitutto è un efficace filtro -tampone protettivo della qualità dell’acqua. La lettiera riparia è assai spessa, soffice e umificata, in grado di bloccare quasi tutto quello che le acque meteoriche, ruscellando superficialmente, erodono dai terreni circostanti, inclusi gli inquinanti diffusi che vengono trappolati, degradati o, per gli inquinanti persistenti come i metalli pesanti, resi non biodisponibili. Il pabulum microbico della lettiera e dell’humus riesce a scomporre in tempi bevi anche sostanze organiche xenobiotiche normalmente resistenti alla biodegradazione. Un fiume che ha la sua vegetazione integra, inoltre, presenta generalmente acque limpide perché è ridotta o completamente bloccata l’erosione meteorica superficiale dei terreni circostanti. .
Inoltre le foglie che in autunno cadono in acqua hanno un ruolo ecologico importantissimo per la vita fluviale: quelle dei pioppi e dei salici sono particolari: presto si rigonfiano divenendo più tenere, poi divengono color marrone perché colonizzate al loro interno da microfunghi che le arricchiscono di elementi nutritivi, e infine costituiscono una dieta ottimale per l’intera copiosa comunità degli organismi invertebrati acquatici detritivori che sono a loro volta alla base, ad esempio, dell’alimentazione dei pesci, del merlo acquaiolo, dell’avifauna limicola e degli anfibi. Gran parte degli apporti trofici negli ecosistemi fluviali deriva dalla vegetazione di sponda, piuttosto che dagli organismi fotosintetici che vivono immersi nella corrente.
Le funzioni importantissime della vegetazione riparia nell’ecologia fluviale sono ancora tante. Ne fornisco un rapido accenno. Essa fornisce ombreggiamento limitando, nei tratti di alveo fotosintetici, l’eccesso di proliferazione algale e l’abbagliamento delle specie animali che non amano la luce diretta come molti invertebrati e le trote (che sono sprovviste di palpebre) e che predano gli invertebrati. Protegge inoltre l’acqua dal riscaldamento, sia con la propria ombra e sia per l’evapotraspirazione che è piuttosto elevata; bisogna richiamare il fenomeno fisico per cui il cambiamento di stato dell’acqua da liquida a vapore avviene a spese dell’energia sottratta all’ambiente esterno, cosicchè l’evapotraspirazione funziona come un condizionatore che riduce la temperatura ambientale. Le basse temperature favoriscono un adeguato tenore di ossigeno disciolto a tutto vantaggio per la vita acquatica. La vegetazione dei corsi d’acqua realizza microhabitat per una moltitudine di organismi e favorisce un’elevatissima biodiversità entro l’acqua e sulle sponde; le radici flottanti degli alberi sono microhabitat per molte specie e zone di rifugio per i pesci. È una vegetazione che consolida e stabilizza le sponde, contrastandone l’erosione e il franamento che causano l’interrimento accelerato di zone fluviali di pianura. Con la sua “rugosità”, unitamente alla vegetazione erbacea e ai salici arbustivi, frena l’impeto della corrente, trattiene più a lungo l’acqua sul territorio mitigando le piene, aumentando i “i tempi di corrivazione” e in definitiva svolgendo un’imponente azione di regimazione che contrasta il rischio idrogeologico. Il permanere dell’acqua rallentata sul territorio inoltre ne favorisce l’infiltrazione laterale e la diffusione all’interno i ghiaioni permeabili delle sponde e quindi la ricarica delle falde.
La vegetazione riparia intrappola i nutrienti il cui eccesso è assai nocivo per le acque e, per quanto riguarda quelli azotati, attraverso le reazioni nitro-denitro li scompone fino al livello di azoto elementare che viene restituito all’atmosfera. Favorisce inoltre la transizione acqua – terra di specie animali: insetti come le libellule, le effimere, svariate famiglie di ditteri, ma anche vertebrati come tutti gli anfibi, molti rettili… Lo svolgersi del ciclo della materia, tanto più efficace quando maggiore è la biodiversità nell’ecosistema, aumenta l’efficienza dell’autodepurazione biologica tipica delle acque correnti e la cui “funzionalità” è oggi alla base delle finalità della normativa introdotta dalla Direttiva Quadro sulle Acqua (Framework Water Directive 60/2000/CE e della normativa italiana D.Lsl 152/2006 e s.m.i.).
La fascia ecotonale acqua-terra perennemente umida o di acque bassissime o a inondazione periodica, ricca anche di vegetazione erbacea che ha le radici o i rizomi immersi nell’acqua e la parte restante aerea, come la cannuccia d’acqua, le tife e i carici (chiamata “elofitica”) è quella a più alta efficienza autodepurativa. Questi ambienti infatti vengono oggi “copiati” e riprodotti artificialmente, come veri e propri impianti di depurazione degli scarichi fognari che in Italia sono noti come “fitodepuratori”, raccomandati peraltro dalla normativa per le caratteristiche di basso impatto ambientale e alta efficienza, economicità di gestione e perfetto inserimento nel paesaggio in cui risultano non percepiti alla vista.
Le fasce ripariali costituiscono i principali habitat di rifugio per la fauna e sono “corridoi ecologici” naturali del territorio per i mammiferi lungo le sponde, per l’avifauna migratrice che memorizza, per orientarsi, le linee dei corsi d’acqua come riferimenti geografici, mentre all’interno delle acque il corridoio fluviale consente le migrazioni interne dei pesci.
Alcuni ricercatori che studiano gli ambienti fluviali e le zone umide (wetlands) hanno definito questi ambienti “supermarkets of biodiversity”: ambienti ricchissimi di specie. Essi, per gli aspetti della biodiversità, sono la nostra “Amazzonia”. Quanto conta la vegetazione riparia sulla buona dotazione di biodiversità, sulla stabilità ecosistemica, sulla resilienza e sulla “funzionalità”, aspetti che garantiscono insieme anche benefici ecosistemici, è cosa che sfugge alla normale comprensione. Cito un esempio illuminante. In Abruzzo fiumi di acque sorgive oligominerali, purissime, come il Vera (Paganica-L’Aquila), il Tirino superiore (Bussi e Capestrano- Pescara) hanno livelli naturalità elevati e di biodiversità straordinari, con presenza di specie rare, come plecotteri, estinti altrove per la loro sensibilità ai disturbi ambientali, ed endemismi. A pochi chilometri nello stesso areale il fiume Giardino (la cui portata è ridotta a causa di captazione della sorgente ad uso acquedottistico), con acque oligomineali e perenni, è privo della quasi totalità delle specie rispetto ai predetti fiumi.
La differenza sta nel fatto che il Vera e il Tirino superiore hanno ripe vegetate ed alveo naturali, mentre il Giardino ha sponde prive di qualsiasi vegetazione arborea e sponde ed alveo sistemati con il cemento. Quanti danni fanno le sistemazioni degli alvei e delle sponde con il cemento e con le gabbionate, le cosiddette “regolarizzazioni” di corsi d’acqua, i tagli indiscriminati della vegetazione riparia, che ancora oggi vengono effettuate, per giunta con denaro pubblico!
Mentre scrivo un albericidio è in atto nel Parco Naturale Regionale Sirente-Velino, in provincia dell’Aquila, e stragi simili mi vengono segnalate in Romagna e in altre parti d’Italia. Alla base di queste azioni riprovevoli c’è la frammentazione delle competenze, l’interesse a lucrare sul legname, spesso l’ignoranza spinta di funzionari pubblici che rivestono ruoli-chiave nei processi amministrativi, l’assenza di controlli, autorizzazioni date con leggerezza stravagante, errate convinzioni idrauliche (velocizzare le acque perché non esondino localmente, ma aggravando il rischio idraulico a valle), incapacità di cogliere lo spirito e il dettato della Direttiva Quadro Europea delle acque, che ha come obiettivo il ripristino di flora e fauna a un buon livello di integrità ecologica e idromorfologica per garantire il potere autodepurativo degli ambienti acquatici.
La normativa vigente imporrebbe l’esatto contrario di quanto è in atto: la riqualificazione ecologica dei corsi d’acqua, e la restituzione ai fiumi del proprio spazio vitale. Ma questa è materia per un altro articolo. Ovviamente lungo i nostri corsi d’acqua non troviamo solo Salicaceae: importante è la presenza, ad esempio, dell’Ontano nero (Alnus glutinosa), del Sambuco (Sambucus nigra) e diverse altre specie tra cui poco noto è probabilmente l’Oleandro (Nerium oleander) che in fiumi della Sardegna dà luogo a fioriture spettacolari. Man mano che ci allontaniamo dall’acqua troviamo alberi a legname sempre più duro, passando per i frassini (Fraxinus excelsior e F. oxycarpa), olmi (Ulmus minor) ma anche aceri campestri, fino ad arrivare, nelle zone oramai abbastanza asciutte, alle querce, ai faggi e altre specie di habitat completamente diverso.
Che fare per la riqualificazione dei fiumi e il restauro del paesaggio? Tra le tante cose basterebbe solo un provvedimento di effettiva tutela delle sponde per una fascia spessa circa 150 metri, o per quanto possibile, per vedere rinascere o comunque migliorare di molto la qualità dei nostri fiumi e il paesaggio senza spendere un solo euro. La vegetazione riparia infatti è talmente rapida nel ri-colonizzare spontaneamente i suoi spazi e ad accrescersi che in pochissimi anni con la sola tutela avremmo già risultati sorprendenti.
.
da Valentina Venturi | 16 Feb, 2021 | Biodiversità, Difesa Foreste, Foreste, Uncategorized
IL NO DECISO DI TUTTE LE ASSOCIAZIONI ALLA DEVASTAZIONE AMBIENTALE DELL’APPENNINO ABRUZZESE ED ALLO SPRECO DI RISORSE PUBBLICHE CHE LA NUOVA STRADA, ROCCARASO-SCANNO-ORTONA DEI MARSI, CAUSEREBBE
La Stazione Ornitologica Abruzzese (SOA) dopo aver appreso dai mezzi di comunicazione del progetto e dopo averne acquisito la proposta preliminare presentata in occasioni pubbliche dalla DMC Alto Sangro (l’agenzia regionale di promozione turistica ) e dall’ UNCEM Abruzzo(Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani) ha prodotto un documento inviato nei giorni scorsi ai Comuni interessati ed all’Ente PNALM da cui emergono aspetti a dir poco sconcertanti sia in termini economico-finanziari e di corretta definizione in merito alla compatibilità con i principi del Recovery Fund , sia di reale utilità in alternativa alla viabilità esistente che in riferimento agli impatti ambientali a dir poco devastanti e del tutto sottovalutati.
Il percorso della nuova strada a due corsie partirebbe dall’ Altopiano delle 5 Miglia per penetrare dentro la Montagna Spaccata all’interno della splendida Foresta Demaniale di Chiarano Sparvera per inerpicarsi fino al suo crinale e con una galleria di oltre 2,4 Km passare dalla intatta Bocca di Chiarano alla sottostante Valle di Jovana. Tra l’altro il tracciato passerebbe dalla Montagna Spaccata che attualmente è una forra strettissima dove a mala pena sale una mulattiera, il che richiederebbe la distruzione completa del piccolo canyon, una “perla” dell’Appennino abruzzese.
Dalla valle di Jovana la strada proseguirebbe a mezza costa sul versante orografico destro della stessa, dove ora esiste una sola casa abitata, per scendere sempre sullo stesso versante in un territorio con boschi e senza alcuna strada o fabbricato fino a Scanno. A valle dell’abitato attraverso un’ altra galleria seguirebbe sulla sponda orografica sinistra del Lago omonimo per raggiungere Villalago, quindi, poco a monte dell’ abitato un’ altra galleria e viadotti per oltre 4 km porterebbero a San Sebastiano dei Marsi per raggiungere infine Ortona dei Marsi ed un nuovo svincolo autostradale a Carrito .
Le associazioni scriventi fanno notare che si andrebbe cosi a sfregiare una parte consistente del paesaggio montano abruzzese ancora integro che comprende Siti di Interesse Comunitari ( SIC e ZSC ), Zone di Protezione Speciali (ZPS), aree contigue ai Parchi nazionali e Riserve naturali regionali.
Tutte le specie animali dell’Appennino abruzzese, molte delle quali protette dalla Direttiva HABITAT della UE ne sarebbero gravemente impattate esponendo la nostra regione ad una più che sicura procedura di infrazione comunitaria. L’areale dell’Orso marsicano verrebbe letteralmente stravolto vanificando tutte le azioni portate avanti da Ministero, Regione , aree protette ed associazioni negli ultimi 15 anni andando a devastare proprio quel corridoio di connessione che tutti fino ad oggi hanno definito vitale per garantire l’ampliamento dell’areale della specie e lo scambio di individui tra un parco nazionale e l’altro. Giova ricordare che qui è nata Amarena, la “famosa” femmina balzata agli onori della cronaca nazionale la scorsa estate. L’orsa è nata, si è riprodotta ed alleva i suoi 4 orsacchiotti tra Villalago e San Sebastiano dei Marsi proprio dove passerebbe la nuova strada.
Ma a cosa servirebbe poi questa strada ? Ha senso in un momento di recessione economica grave prevedere di spendere 750 MILIONI DI EURO ( ma quali saranno i costi reali ?) per accorciare un percorso di soli 20 Km che tra l’altro taglierebbe fuori tutto l’Alto Sangro meta di un turismo escursionistico naturalista da anni in crescita costante ? Roccaraso e Rivisondoli hanno bisogno di una strada simile quando sono gia servite comodamente ? Lo stato di generale abbandono della viabilita dell’Abruzzo interno non giustificherebbe invece interventi di miglioramento e manutenzione ormai irrimandabili piuttosto che una nuova strada “nel nulla” che non serve a nessuno se non alle ditte che se ne aggiudicheranno la costruzione ? I servizi disastrati dei Comuni della montagna abruzzese (ospedali, ambulatori, servizi di trasporto pubblico, Farmacie, RSA etc etc..) non meriterebbero questi fondi invece di aggiungere altro asfalto ad un territorio già piagato dal dissesto idrogeologico ?
In alternativa a questo progetto insostenibile per la natura e per le popolazioni residenti, le associazioni invitano la Regione Abruzzo, UNCEM Abruzzo, DMC Alto Sangro e i Comuni interessati a chiedere al Presidente del Consiglio ed al Governo i fondi per la messa in sicurezza delle strade esistenti. In vista del centenario del PNALM (2023), bisogna adeguare l’intera rete stradale con aree per la sosta temporanea dei turisti nei punti panoramici indicati dall’Ente Parco, dotate dei necessari servizi di informazione al turista e di promozione di tutta l’area e dei suoi prodotti tipici. Sarebbe bene anche affidare la suddetta rete viaria all’ANAS, evitando cosi altri casi come quello del ponte sul Giovenco sulla SP 17 che attende ancora il completamento dalla sua riapertura nell’Aprile del 2019 ( dopo che la sua chiusura impose un anno d’isolamento ai borghi della valle del Giovenco !! ). In conclusione al neo Ministro alle Infrastrutture e Trasporti Enrico Giovannini ricordiamo che dei 32 miliardi che il Recovery Plan assegna a infrastrutture e traporti, la metà dovrà essere investita in mobilità sostenibile ed alla luce di quanto sopra, gli chiediamo di inserire nel suo programma immediato la messa in sicurezza di tutte le strade del PNALM, comprese le aree attrezzate per i turisti e il recupero e rilancio del treno più alto dell’Appennino, L’Aquila – Sulmona – Pescocostanzo – Castel di Sangro, per la mobilità dolce all’interno del sistema dei parchi naturali abruzzesi (Pnalm, Majella, Sirente-Velino, Gran Sasso e Monti della Laga).
Per le motivazioni di cui sopra le associazioni scriventi fanno appello a tutti i comuni coinvolti alla Regione, all’ Ente PNALM ed alle Riserve interessate dall’opera affinché prendano le distanze dal
progetto in argomento ed adottino atti formali di dissenso in merito allo stesso, tali da impedirne il finanziamento e la, seppur parziale, realizzazione.
Per info 3355388206
Firmano il comunicato :
1. ITALIA NOSTRA Abruzzo
2. MOUNTAIN WILDERNESS Abruzzo
3. WWF Abruzzo
4. LIPU Abruzzo
5. ITALIA NOSTRA Abruzzo
6. CAI Abruzzo
7. STAZIONE ORNITOLOGICA ABRUZZESE
8. PRO NATURA Abruzzo
9. SALVIAMO L’ORSO
10. APPENNINO ECOSISTEMA
11. Rewilding Apennine
12. Associazione MONTAGNA GRANDE – Valle del Giovenco
13. ORSO and Friends
14. TOURING CLUB ITALIANO Abruzzo
15. DALLA PARTE DELL’ORSO – Pettorano sul Gizio
16. FARE VERDE Abruzzo
17. Società Italiana per la Storia della Fauna “Giuseppe Altobello”
18. I GUFI
19. SALVIAMO IL PAESAGGIO
20. Federtrek – Escursionismo e Ambiente 21. Associazione Italiana Wilderness
da Valentina Venturi | 21 Gen, 2021 | Biodiversità, Foreste, Uncategorized
Tra gli alberi che formano il Bosco di Valzo si può ritrovare una storia, passo dopo passo, ripercorrendo le tracce di una passione per la scienza e per lo sviluppo della cultura.
È un bosco che ha un nome proprio e permette di ricordare la figura di Carmela Cortini Pedrotti. Il bosco acquistato da Franco Pedrotti, botanico di fama internazionale che ha voluto creare questa riserva naturale per proteggere la biodiversità e dare un senso concreto alla memoria per la sua compagna di una vita intera.
Si trova a Valzo, comune di Vallecastellana, Provincia di Teramo, nel territorio del Parco Nazionale del Gran Sasso – Monti della Laga. Si estende fra 800 e 1100 metri su un’area di 32 ettari ed è formato da un bosco di roverella, con presenza di carpino nero, cerro, castagno, leccio sui “valzi” rocciosi e – nella parte più alta – anche faggio; lungo il ruscello che nasce da una sorgente all’interno del bosco cresce il salice bianco.
Il “Bosco” attualmente è un ceduo con pochi alberi di alto fusto; è destinato a diventare spontaneamente un bosco di alto fusto con alberi di grandi dimensioni e cioè una fustaia disetanea interessata dal processo ecologico della fluttuazione, ove gli alberi compiono il loro ciclo completo – dal seme allo sviluppo della plantula e quindi dell’albero – fino alla loro caduta per cause naturali.
Dal 18 gennaio 2021, il Bosco “Carmela Cortini” di Valzo, con la firma dell’atto notarile, è diventato proprietà del Fondo Ambiente Italiano (FAI), che ne curerà la protezione, la conservazione e la valorizzazione naturalistica.
Un bosco può significare molte cose: un ecosistema; un elemento vitale nel quale si rinnovano i cicli naturali e si “producono” i servizi ecosistemici; un modo per conservare la natura e gli equilibri. Questo bosco ha un valore aggiunto che è dato dalla testimonianza di una vita dedicata alla scienza e alla natura. Una donna che ha dedicato la propria vita a far crescere la conoscenza scientifica, svolgendo attività di ricerca e di docenza, pubblicando studi e partecipando a conferenze di rilevanza internazionale.
È bello immaginare che quei rami, quei tronchi, continuino a crescere ed evolvere, dimostrando il ruolo della scienza come guida per affrontare il futuro che ci attende: un bosco che è un laboratorio vivo, dove svolgere ricerche scientifiche e studiare le modificazioni e i cambiamenti, raccogliendo dati e apprendendo lezioni (a cura di Andrea Ferraretto, Roma).
Video dedicato al Bosco Carmela Cortini di Valzo
https://www.youtube.com/watch?v=LWEzvxOfzyo&t=1412s
Servizio del TG1 sul bosco di Valzo
http://www.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-1c02e321-b49c-46de-91b7-9f445a389477-tg1.html
da Valentina Venturi | 1 Gen, 2021 | Difesa Foreste, Foreste, Fuoco prescritto
Gli incendi in natura vengono innescati soprattutto dai fulmini e in questo caso sono assai poco frequenti a ripetersi negli stessi areali. Quelli il cui innesco è operato dall’azione dei vulcani invece tendono a riverificarsi nelle medesime zone. Ne deriva che per la stragrande maggior parte del territorio la frequenza degli incendi per un determinato areale è una cosa assai indeterminata e comunque tendenzialmente molto bassa.
In natura gli incendi sono un’eccezione alle regole che in natura caratterizzano gli ecosistemi. Vanno interpretati come #incidenti piuttosto rari, comunque estranei alle dinamiche della vita le cui basi biochimiche ed ecologico-ambientali si svolgono tipicamente su intervalli di temperature molto bassi. Con la nascita delle scienze ecologiche soprattutto dopo il 1940, si scopre anche che il fuoco può essere uno dei fattori ecologici naturali che esercita una pressione selettiva su una moltitudine di specie all’interno degli ecosistemi e che può favorirne altre, come ad esempio le conifere che hanno strobili cementati dalla resina. In Italia ne è un esempio il Pinus halepensis Mill. 1768 i cui strobili con il calore possono aprirsi e diffondere abbondantemente i semi rinnovellando il bosco ove sono state eliminate altre specie, siano esse pregiate e caratteristiche dei luoghi che magari, invasive. Esistono anche i casi dei semi dormienti che possono essere attivati dall’aumento della temperatura. Anche la corazza altamente termoisolante delle querce da sughero (Quercus suber, Linnaeus 1758) rappresenta una strategia evolutiva-adattativa formidabile per fronteggiare l’incendio, ma se andiamo a ben vedere le fiamme sono comunque sempre occasionali anomalie catastrofiche e non la regola comune. In definitiva anche per specie suddette parliamo di resistenza, di strategie evolutive di sopravvivenza e non certo di normale “ordinaria” autoecologia. Si consideri inoltre che gli incendi causati dai fulmini il più delle volte sono mitigati in quanto associati alle piogge temporalesche, a differenza di quelli causati dall’azione dell’uomo che usualmente si producono in periodi siccitosi persistenti. Quelli ad opera degli umani sono innescati da disattenzione, da incidenti per perdita di controllo, da interessi economici o per motivi offensivi quali ad esempio la vendetta: rarissimi (praticamente non esistono) sono invece i piromani, soggetti malati di patologia psichiatrica che provano piacere para-sessuale esaltante ad appiccare e osservare le fiamme. La totalità degli incendi dolosi è quindi opera delinquenziale di incendiari.
L’uomo ha imparato a sfruttare gli incendi fin dall’antichità quale mezzo per controllare ed impedire distruttivamente la naturale successione delle comunità vegetali spontanee tipiche locali e per realizzare e mantenere un paraclimax artificiale favorevole alle proprie esigenze. La tecnica del fuoco “deliberato” è stata così applicata in svariate parti del mondo sempre a fini utilitaristici per liberare dalla vegetazione arborea ed arbustiva da terreni da adibire all’agricoltura o al pascolo, per provocare, con la pratica dell’addebbiatura, la caduta sul suolo dei nutrienti contenuti nella biomassa e resi minerali nelle ceneri, per favorire battute di caccia e, un po dovunque, per motivi militari.
A partire dalla metà del secolo scorso il fuoco prescritto e controllato è stato impiegato deliberatamente anche negli ecosistemi di prateria per eliminare la necromassa vegetale o comunque le specie erbacee ed arbustive particolarmente infiammabili; negli ecosistemi forestali è stato impiegato per creare preventivamente fasce di discontinuità sia orizzontali che verticali per contribuire al confinamento di potenziali incendi devastanti, risparmiandosi di eseguire nel sottobosco rimozioni manuali o con mezzi meccanici delle biomasse più facilmente infiammabili.
Tale tecnica è quindi assunta da suoi attuali sostenitori come alternativa alle operazioni di manutenzione forestale che si rendesero necessarie, quali potature, diradamenti, pascolo e i suoi sostenitori, per risparmiare sui lavori. Gli stessi non mancano di evidenziare che essa consente di evitare il ricorso all’impiego di diserbanti di sintesi chimica.
Una caratteristica che distingue il fuoco prescritto dalle altre pratiche tradizionali e improvvisate ancorchè in qualche modo controllate, è comunque quella della programmazione: perché questa tecnica possa entrare nei propositi di gestione sarebbe indispensabile l’adozione di una serie di prescrizioni programmatiche fondate su basi previsionali riferibili, inevitabilmente, a molteplici fattori: impatto paesaggistico (generalmente preso in poca considerazione), umidità del suolo e del soprassuolo, calendario d’intervento, frequenza, condizioni del vento, geometria della fiamma, condizioni di sicurezza, effetti probabili sulle componenti biotiche interessate: associazioni vegetali (indi flora e vegetazione), substrato batterico, micorrizico, popolamento degli invertebrati del suolo. L’impatto sul suolo vitale è probabilmente il più delicato e difficile da trattare con qualche completezza.
La pratica del fuoco prescritto è molto controversa in quanto se non ancora può dirsi adeguatamente studiata per i diversi ambienti interessati, lo è ancor meno in Italia ove è stata applicata in pochissime occasioni e per i limiti delle nostre conoscenze.
La crisi ecologica attuale e in particolare del clima e della biodiversità e l’accresciuta sensibilità per i temi ambientali in larghe fasce della popolazione, il progredire delle conoscenze scientifiche e, ancora di più, della consapevolezza di quello che non ancora si conosce sulla funzionalità degli ecosistemi, unitamente al dettato di numerose leggi, Direttive e convenzioni internazionali (per tutte si pensi alle leggi che disciplinano le Aree naturali protette e quelle sulla biodiversità e in particolare la Direttiva 92/43/CEE “Habitat”), impongono di dover abbandonare una concezione esclusivamente utilitaristica, economicistica e riduzionistica nelle azioni umane e di abbracciare una visione che tenga conto della complessità dell’ecologia degli ambienti, in tutte le sue forme, soprattutto per azioni come quelle in argomento che comportano alti fattori di rischio molto severi e una intrinseca carica di distruttività.
Se prendiamo a riferimento il complesso dei princìpi messi a punto dall’Unione Europea e che costituiscono anche la base della normativa vigente in materia ambientale e dei quadri d’azione dell’Unione la tecnica del “fuoco prescritto” non può essere ritenuta minimamente ammissibile.
Contrasta infatti con:
– il principio di precauzione introdotto col Trattato dell’UE, secondo il quale gli stati, al fine di proteggere l’ambiente, devono largamente adottare una serie di misure preventive ancor prima che abbia inizio un processo di degrado ambientale;
– di prevenzione (ar.191 del Trattato di Lisbona) che ha l’obiettivo di evitare i danni ambientali azzerando ogni rischio, con il dovere di predisporre tutte le misure dirette ad evitare alterazioni ambientali;
– di integrazione, introdotto con il trattato di Amsterdam (e che sta diventando un principio fondamentale di tutta l’azione comunitaria in materia di ambiente) che prevede che tutte le discipline riguardanti qualsiasi ambito della vita umana devono essere integrate da una valutazione d’impatto ambientale della disciplina stessa (il che implica che le valutazioni devono tener conto degli aspetti ecologici, economici ed ambientali);
– di correzione alla fonte (art. 191 TFEU ex art. 174 CE) che prevede l’immediata rimozione della causa che ha portato (o può portare) all’inquinamento o al degrado secondo la logica che correggere alla radice fa assumere alla correzione maggiore efficacia.
– Il principo di sicurezza affermato oramai da anni, ancor prima dell’evoluzione della costruzione dell’U.E., ed è trasversalmente presente nella complessa legislazione vigente anche in Italia nelle attività sociali.
Se esaminiamo assieme agli aspetti utilitaristici i princìpi sopra citati, dobbiamo trarre la prima conclusione che il “fuoco prescritto” dovrebbe essere programmato con un effettivo, severo approccio olistico, integrato, e basarsi su una solida base conoscitiva dell’ambiente naturale ed umano coinvolto. Il suo impiego dovrebbe essere valutato anche mettendo a confronto le varie opzioni alternative, inclusa l’opzione zero, così come è in uso da anni nelle procedure di Valutazione dell’Impatto Ambientale (V.I.A.) e di Valutazione Ambientale Strategica (V.A.S.), facendo ricorso anche a vari modelli di analisi previsionali.
Oggi, per certo, non disponiamo di una base conoscitiva adeguata per poter programmare operazioni caratterizzate da così grande potenziale distruttivo. Non è possibile, pertanto, prevedere l’impatto effettivo, immediato e nel tempo, nei confronti della biodiversità e delle reti ecologiche caratterizzate da estrema complessità e in gran parte sconosciute. Le nostre conoscenze infatti sono indirizzate per solito alla vegetazione in soprassuolo (ma onestamente non tutta l’autoecologia, specie per specie e pochissimo alle relazioni fra loro e il mondo chimico-fisico, con quello animale e con il regno dei funghi micorrizici); sappiamo ancora pochissimo sulla vita nel suolo, che pure è alla base della fertilità, e sappiamo quasi nulla sulle reti mirabili dei miceli le cui ife sono il tessuto connettivo e di “comunicazione” delle foreste e delle praterie. Fino a qualche anno fa nessuno avrebbe immaginato che un micelio di Armillaria può essere esteso per diversi chilometri o che possa esistere un micelio esteso 10 chilometriquadri. Abbiamo ancora significative carenze conoscitive sul ruolo degli insetti negli ecosistemi forestali. Anche l’impatto sulla fauna superiore è imprevedibile: anfibi, rettili dotati di scarsa mobilità e comunemente nascosti col fuoco sono spacciati, e la stessa mammalofauna, seppur mobile, può trovarsi circondata dalle fiamme e perire.
Negli Stati Uniti, Australia e Sud Africa l’impiego di questa tecnica è stato accompagnato, progressivamente, da studi multidisciplinari, per quanto possibile, sugli aspetti ecologici (flora, vegetazione, fauna, suolo, falde, acque, ecosistemi, paesaggio) protocollari, utilitaristici e legali. Tuttavia gli autori non dichiarano, francamente, di aver raggiunto gli elevati livelli di conoscenza che la questione richiederebbe proprio perché si va ad agire su sistemi complessi e con metodi distruttivi che possono sfuggire al controllo.
Anche in Europa (Francia, Portogallo e Spagna in particolare) ove esperienze di fuoco prescritto sono state avviate verso la fine del 1970 e primi del 1980, sono state condotte ricerche sugli effetti ambientali connessi. Sono stati indagati, in particolare, gli aspetti della prevenzione degli incendi, la formazione del personale addetto, la gestione delle risorse silvo-pastorali e in alcuni casi la conservazione di habitat prioritari ai sensi della Direttiva Habitat. Questi studi appaiono tuttavia inquadrati troppo riduttivamente a finalità utilitaristiche e con l’attenzione rivolta al contenimento dei costi d’intervento rispetto ad altre tecniche alternative (manuali, meccaniche, e con agenti chimici) piuttosto che all’approfondimento dei fattori di rischio associati alla distruzione degli habitat e della qualità del suolo. Si è registrato, ad esempio, come atteso, l’esito di un incremento di nutrienti azotati e fosfatici nel terreno ma anche che questo “beneficio” tende a scomparire presto perché le molecole utili alle piante a causa della loro elevata solubilità sono molto facilmente dilavate alla prima pioggia. Inoltre buona parte dell’azoto, importante macronutriente, con le combustione si disperde nell’aria con i fumi.
Il carbonio delle biomasse vegetali poi, col fuoco va tutto in atmosfera come CO2 a contribuire, con immediatezza, alla crisi climatica. Questa è la prova più lampante della anti-ecologicità del prescritto: esso sottrae carbonio che era immobilizzato al suolo, comparto in cui è prezioso e fattore principe di fertilità, habitat e cibo per numerosi esseri viventi e lo immette nell’atmosfera sottoforma di anidride carbonica ove la concentrazione di questo gas è già in inaccettabile eccesso avendo superato i limiti di tolleranza dell’ecosistema globale e innescato la crisi climatica. Nella complessità del paesaggio ecologico italiano, inoltre, non appaiono considerati affatto o adeguatamente i temi legati ai corridoi ecologici e alle connessioni ecologiche la cui salvaguardia è invece uno dei fattori essenziali per la conservazione della biodiversità.
Altrettanto poco considerati sono gli aspetti genetici intraspecifici legati alla conservazione della diversità biologica: mentre sappiamo distinguere specie e riconoscere endemismi su basi morfologiche (anche se le ibridazioni e le incertezze rendono spesso questa operazione difficile e tale da richiedere il ricorso a specialisti o all’analisi genetica) poco o nulla sappiamo generalmente della diversità genetica esistenti all’interno delle specie – fenotipicamente apparenti identiche- sulle quali andiamo ad agire con il fuoco. Si deve porre, quindi, anche il problema della salvaguardia degli ecotipi locali, per la salvaguardane la biodiversità genotipica. Ricordiamo che gli ecotipi locali delle specie indigene, presenti in sito da generazioni, se non da tempi immemorabili, hanno caratteristiche genetiche che hanno superato il vaglio della selezione naturale: in quanto sopravvissute, risultano essere le più adatte, le più vigorose e resistenti alle avversità rispetto a individui della stessa specie ma evolutisi in luoghi e condizioni assolutamente diversi o, peggio, di allevamento vivaistico-commerciale.
Andrebbero considerati come non secondari i numerosissimi “servizi ecosistemici” che gli ambienti boschivi e/o forestali svolgono a favore del benessere umano, del clima, del ciclo delle acque, nella purificazione dell’aria: cose difficilissime da valutare e la cui quantificazione richiederebbe tempi lunghi e grandi sforzi di ricerca.
In Italia il fuoco prescritto ha mostrato di essere in grado di migliorare la produzione foraggera in incolti produttivi, di migliorare la gestione di terre destinate al pascolo (cosa del resto già nota per l’azione dei fuochi pastorali storici), e con modalità complesse, di poter arginare gli incendi boschivi ma a prezzi ecologici e spesso idrogeologici generalmente molto pesanti e con danni spesso irreversibili. Basta guardare a riguardo le montagne appenniniche liberate dai boschi in epoche passate e che ,soggette a dilavamento ed erosione metereologica superficiale, mostrano oramai da secoli lo scheletro roccioso con aspetto paesaggistico desolante ed asetto ecologicamente povero e banale.
Inoltre vanno considerate, se operiamo un confronto tra le possibili alternative per la prevenzione degli incendi boschivi, le peculiarità del nostro Paese: elevata densità di popolazione, territorio accidentato con prevalenti versanti scoscesi, presenza di case e di piccoli insediamenti abitativi sparsi, l’eccessivo frazionamento fondiario, l’interfaccia estesa e il contatto diretto fra i perimetri dei suoli ad uso agricolo-forestale e insediativo, la presenza pressochè capillare di infrastrutture quali strade, ferrovie, acquedotti, elettrodotti, gasdotti, cavidotti, impianti di depurazione, impianti energetici diffusi anche di piccolissime dimensioni, discariche, depuratori e beni storico-artistici diffusi, dagli eremi di montagna alle chiese pastorali passando per dimore storiche e castelli.
Non riteniamo secondarie, inoltre, le questioni legate alla qualità delle acque sotterranee i cui impatti possono essere valutati con monitoraggi protratti per tempi lunghissimi e solo con analisi sito-specifiche per via delle diversità orografiche, geologiche , idrogeologiche che fanno parlare di fragilità del nostro Paese, accentuata dalle modificazioni climatiche in corso e dalla modificazione del regime e della intensità delle precipitazioni.
Non possono neppure essere messi in secondo piano gli aspetti paesaggistico-percettivi e paesaggistico-funzionali che, oltre agli aspetti pur importanti legati alla bellezza, hanno riflessi sulla vivibilità, sull’economia turistica sostenibile –anche potenziale- e che sono comunque generalmente tutelati tra i princìpi istituzionali dettati dall’art. 9 della Costituzione.
L’Italia non è la brughiera a Calluna vulgaris di molte aree geografiche d’Europa ove si è regolamentato l’uso rurale del fuoco né ha le grandi praterie estese come quelle del continente americano. Ha tanta diversità ambientale, ecologica e culturale per cui non è adatta a una patica tanto pericolosa e distruttiva che presenta il rischio che possa sfuggire al controllo.
Un cittadino anziano in un convegno, appreso dell’esistenza del fuoco prescritto, ha riassunto efficacemente così la propria condivisibile opinione: <..è come se per timore che possa venirmi la carie…, mi facessi estrarre i denti”.
Un po tutti gli studi finora effettuati hanno evidenziato aspetti critici nel nostro Paese, soprattutto per quanto riguarda la carenza di adeguate conoscenze di base sull’ambiente nonché sugli aspetti teorici, operativi e sperimentali, e il conflitto con normative vigenti. Alcune Regioni hanno aggiornato così la propria normativa, o dettato prescrizioni di massima o adottato Piani Regionali di Previsione, Prevenzione e Lotta agli Incendi Boschivi ai sensi della L. 353/2000, prevedendo la possibilità di autorizzare sperimentazioni o applicazioni di fuoco prescritto anche nei Parchi Nazionali, Riserve Statali e Regionali. In nome dell’emergenza e della lotta agli incendi, si è preteso persino di operare disboscamenti in zone a tutela paesaggistica ed idrogeologica senza il parere delle Soprintendenze. E’ il caso della Riserva Naturale Litorale Romano ove tagli, non ostante le denunce, il sequestro di un cantiere, interrogazioni parlamentari a camera e senato, continuano. E’ anche il caso del Piano AIB della Regione Toscana per la Pineta litoranea del Tombolo, nel grossetano. Su ricorso al capo dello Stato (prima firmataria Mariarita Signorini all’epoca Presidente di Italia Nostra, di cui oggi è consigliere nazionale, e attualmente del direttivo G.U.F.I.) il Consiglio di Stato ha emesso una sentenza dettagliatissima di 56 pagine, sugellata come decreto del Presidente della Repubblica, che ha smontato e annullato il Piano AIB e, tra l’altro, ha ribadito che il parere delle Soprintendenze, ove si agisce in zone vincolate, è obbligatorio e ineludibile. Contro l’obbligo di richiedere il parere delle Soprintendenze si è creato un piccolo ma chiassoso e lobbystico movimento appoggiato da alcuni accademici che pretenderebbe di avere mano libera per i tagli dei boschi e che il governo legiferasse per evitare i pareri attualmente richiesti. Di converso 100 associazioni hanno firmato un documento a sostegno della necessità che i vincoli paesaggistico e idrogeologco, ove vigenti, vengano mantenuti e rispettati.
Se fossero condotti minimamente tutti gli studi multidisciplinari che si rendono necessari per l’applicazione del fuoco deliberato, se si rispettassero estesamente le norme esistenti, non ci sarebbe partita per il “Fuoco prescritto” rispetto alle possibili alternative praticabili nei vari habitat.
Gli incendi si possono e si devono prevenire;
- con la sorveglianza e l’avvistamento precoce
- con l’intervento immediato, a terra, nello spegnimento, con squadre qualificate, ben attrezzate e addestrate, governate da un Direttore delle Operazioni di Spegnimento (D.O.S.);
- Con provvedimenti amministrativi,legando possibilmente gli stipendi e salari all’entità delle aree salvate preventivamente tramite incentivazioni e premi , mentre possono essere irrogate penalizzazioni in proporzione alle aree incendiate;
- con la messa in primo piano anche gli interventi selvicolturali di miglioramento boschivo.
- con l’addestramento e la conoscenza delle tecniche per controllare i materiali infiammabili in modo da armonizzare e migliorare le tecniche di selvicoltura preventiva rispetto agli incendi.
- attraverso il pascolo controllato (scelta da preferire) dal momento che oltre al risultato per la prevenzione degli incendi assicura anche un vantaggio economico ed è una pratica che se controllata e pianificata adeguatamente appare molto sostenibile. L’allevamento delle capre anche in zone impervie, organizzato con la dotazione di una mungitrice mobile e un centro di confezionamento di latte fresco, latte a lunga conservazione e di trasformazione lattiero-casearia, è una risorsa economica ed occupazionale di assoluto rispetto che andrebbe incentivata e raccomandata. Ciò, soprattutto, nelle aree in cui è in atto l’espansione dei boschi quale esito all’abbandono di terreni un tempo oggetto di pratiche agricole e che il TUFF espone ai tagli;
- con la rimozione parziale, in fasce strategiche, della vegetazione infiammabile con procedure meccaniche e manuali. (la potatura e la pulizia manuale è da preferire sempre)
e se proprio non bastassero le misure di prevenzione e d’intervento immediato, con il ricorso a mezzi aerei, che peraltro non possono operare di notte, e su cui si è fatto in Italia troppo affidamento questi devono essere di ausilio (e non sostitutivi) degli interventi a terra!
Ovviamente è necessario predisporre mappe di punti strategici di approvvigionamento dell’acqua, realizzati anche artificialmente ove non presenti in natura.
Bibliografia
Senatore G (2000). Il fuoco prescritto: discussa tecnica di gestione di risorse silvo-pastorali. L’Italia forestale e montana 55 (1): 41-50.
Stefani A (1985). Bruciare o non bruciare? Economia montana 4: 3-9.
Bovio G, Ascoli D (2009). Fuoco prescritto: opportunità di applicazione. In: “La gestione della difesa dagli incendi boschivi”. Fondazione S. Giovanni Gualberto – Osservatorio Foreste e Ambiente, I Quaderni, no. 9, pp. 25-34.
Bovio G, Ascoli D (2011). Ricerche sul fuoco prescritto in Piemonte: applicazione e formazione. In: “Piano regionale per la programmazione delle attività di previsione, prevenzione e lotta attiva contro gli incendi boschivi 2011-2014”. Regione Piemonte, Torino, pp. 151-159.
Bovio G, Ascoli D (2012). Fuoco prescritto: stato dell’arte della normativa in Italia. L’Italia Forestale e Montana. [in corso di stampa]
Ascoli D, Bovio G (2009). Il fuoco prescritto in Italia e l’esperienza in Piemonte. In: Atti del “III Congresso Nazionale di Selvicoltura”.Taormina (CT), 16-19 ott. 2008. Accademia Italiana di Scienze Forestali, Firenze, pp. 378-384.
Buresti E, Sulli M (1983). Il fuoco strumento colturale? Annali dell’Istituto Sperimentale per la Selvicoltura, Arezzo XVI: 355-385.
Calabri G (1981). Il fuoco prescritto, una discussa tecnica per la gestione dei boschi. Monti e boschi 32 (1): 35-42.
De Ronde C (2007). Manuale di gestione del fuoco: applicazione del fuoco prescritto e protezione integrata dal fuoco nelle foreste litoranee di Pino d’Aleppo della Regione Basilicata. Regione Basilicata, doc. interno non pubblicato.
Leone V (2004). Fuoco prescritto. In: “Incendi e complessità ecosistemica – Dalla pianificazione forestale al recupero ambientale” (Blasi C, Bovio G, Corona P, Marchetti M, Maturani A, Ministero Ambiente e Tutela del Territorio e Società Botanica Italiana eds). Palombi & Partner, Roma, pp. 214-216.
Mazzoleni S, Bellelli M, Esposito A, Ricotta C, Di Pasquale G, Blasi C (2001). Incendi e paesaggio vegetale: il caso del Cilento, Campania. Italia Forestale e Montana 6: 417-429.
Commenti recenti