L’uccisione dell’orsa Amarena deve imporre una riflessione sulla gestione degli orsi marsicani e su come tenerli lontani dai paesi, in particolare su come far trovare loro cibo a sufficienza nelle aree non occupate dall’uomo. Un elemento troppo spesso trascurato in questo senso è la qualità e il grado di complessità dei boschi che sono territorio dell’orso, la loro importanza nel fornire fonti alimentari a questa specie, e l’impatto che hanno i tagli boschivi nel compromettere la capacità delle foreste di produrre cibo per gli orsi.
L’orso è un animale onnivoro e una parte rilevante della sua alimentazione è costituita da ghiande (prodotte dalle querce) e di faggiole (il frutto del faggio): sono stati trovati escrementi di orso composti unicamente da ghiande e faggiole. Ma non tutti gli alberi producono ghiande e faggiole allo stesso modo. Esattamente come un bambino ha bisogno di crescere prima di entrare nell’età riproduttiva, anche le piante non fruttificano durante i primi anni di vita.
Un faggio comincia a fruttificare non prima dei 20-30 anni di età, mentre le querce cominciano a fruttificare a 30-40 (le farnie un po’ prima delle altre specie). Un albero troppo giovane, quindi, non produce frutti, e non fornisce cibo agli animali selvatici. Molti boschi sono in questa situazione, in particolare quelli nati dall’espansione del bosco in zone prima coltivate.
Ci sono poi i boschi governati a ceduo, dove le piante vengono tagliate alla base per fare legna, e ricrescono con giovani rami chiamati polloni. Questa forma di governo del bosco, dannosa perché lascia il suolo forestale quasi completamente scoperto, è molto diffusa in Italia e purtroppo viene utilizzata anche all’interno dei parchi nazionali.
Le piante ceduate devono ricrescere da capo dopo ogni taglio, ricostituendo la parte aerea. L’albero quindi spende moltissime energie per sopravvivere al taglio, e non fruttifica per qualche anno, o lo fa ma producendo pochissimi frutti. Una pianta ricresciuta dopo un taglio ceduo è un pianta piccola, e dopo turni molto brevi (di solito 20 anni, ma a volte anche meno) viene tagliata di nuovo. Questi alberi, condannati a non poter mai raggiungere dimensioni dignitose, hanno una produzione di frutti misera e assolutamente imparagonabile a una pianta secolare.
Altro effetto delle continue ceduazioni è il taglio del sottobosco, che fornisce cibo agli animali selvatici sotto forma di frutti di bosco, insetti e micromammiferi. Il sottobosco viene eliminato per consentire il passaggio dei macchinari per il taglio boschivo.
È quindi importante, nel considerare l’areale dell’orso, non concentrarsi solo sulla sua estensione, ma anche sulla qualità e complessità dei boschi compresi nel territorio della specie. Boschi più evoluti hanno una capacità portante per la specie molto superiore a boschi giovani o ceduati, che sono ecosistemi immaturi dove non ci sono catene alimentari stabili e articolate. Gli orsi marsicani hanno bisogno di un numero rilevante di aree boschive lasciate all’evoluzione naturale, con boschi indisturbati da tagli, e ricchi di cibo per loro e altre specie animali, se vogliamo tenerli lontani dai centri abitati per favorire la convivenza e salvare la specie.
Nei boschi sottoposti invece a gestione, bisogna abbandonare il governo a ceduo e puntare su quello ad alto fusto, più rispettoso delle dinamiche naturali. Si possono fare tagli oculati e limitati, senza aprire o destrutturare troppo la foresta, praticando una selvicoltura più ecosostenibile e meno impattante, che lasci un numero adeguato di piante mature che possono fruttificare e nutrire la fauna.
Anche le pinete artificiali, di cui si invoca così spesso il diradamento, possono fornire cibo agli orsi marsicani. A causa della grande quantità di legno morto al loro interno sono ricche di insetti e micromammiferi: tutti cibi apprezzati dagli orsi.
Tutto questo non esclude altri possibili interventi per l’alimentazione degli orsi, come una possibile ripresa della pasturazione in aree isolate. Ma un discorso sulle fonti alimentari degli orsi non può prescindere da una discussione sullo stato delle foreste.
È utile in questo senso anche la conservazione degli esemplari di alberi da frutto rimasti nei terreni non più coltivati. Questi alberi camporili possono essere di varie specie e trovarsi in condizioni diverse: in pieno campo, ai margini meno coltivabili o sui confini, come accade nei pascoli e seminativi arborati o cespugliati, per le querce camporili, o per gli alberi maritati alle viti (aceri e olmi campestri, ma anche gelsi e più raramente meli e altre specie di alberi). Sono piante robuste, longeve e rustiche, selezionate dalla natura, che possono costituire una risorsa trofica per la fauna.
Le foreste possono anche essere arricchite di fonti alimentari per l’orso con la messa a dimora di alberi da frutti come meli e peri selvatici. Queste piante sono perfette ai margini di boschi e praterie, o dove c’è una gestione orientata alla conservazione di pascoli, creando pascoli arborati, o garrighe, e andando a creare corridoi ecologici ricchi di fonti alimentari.
Le garrighe, aree aperte e aride dove il bosco non arriva, e i pascoli arborati possono essere di particolare interesse a questo scopo. La messa a dimora di alcuni alberi da frutto in questi contesti permetterebbe anche di ricreare alcuni elementi tradizionali del paesaggio, con interventi che aumentino la diversità a mosaico degli habitat secondari. I pascoli arborati, per esempio, consentono un uso sinergico del territorio. Questi luoghi possono agire come zone buffer per tenere lontani i selvatici dalle attività agricole e dai paesi. Alberi e arbusti di questo tipo possono essere una risorsa d’emergenza per le specie più minacciate, specialmente negli anni non di pasciona.
Altra azione importante può essere il restauro dei ramneti in alta quota, dove sono primari.
Ogni specie vivente, compresa quella umana, è legata a doppio filo al proprio ambiente naturale. Le azioni per salvare le specie a rischio estinzione devono quindi avere come punto di partenza la conservazione del suo habitat. Se vogliamo salvare gli orsi marsicani, dobbiamo avere più cura delle loro foreste.
Firenze, 14 giugno 2022 – Le associazioni firmatarie chiedono al Consiglio Regionale della Toscana di approvare la proposta di legge sui tagli boschivi in discussione giovedì mattina.
La proposta di legge, presentata dalla Consigliera Silvia Noferi, è mirata a impedire che i boschi pubblici, anche all’interno di aree protette, vengano trattati alla stregua di deposito di legname con il quale far cassa, con tagli frequenti e gravemente impattanti sull’ecosistema forestale.
Tende poi a dare più responsabilità al Consiglio Regionale e meno alla Giunta, l’organo che attualmente decide, senza un adeguato confronto politico, le scelte sostanziali in materia di gestione forestale. Introduce inoltre la presenza del tecnico forestale sia in fase di asseverazione che di collaudo: la presenza di un professionista nelle procedure amministrative per il taglio dei boschi, infatti, costituisce un elemento di maggiore garanzia per gli organi di controllo, quali i Carabinieri Forestali.
La proposta di legge pone inoltre un argine alla pratica del taglio a raso del ceduo, sposando le recenti direttive operative del Comando dei Carabinieri Forestali, secondo le quali i boschi cedui invecchiati devono essere considerati fustaie e quindi sottoposti a maggiori limiti relativi ai tagli boschivi.
Il taglio a ceduo è un metodo di governo del bosco molto utilizzato in Toscana che denuda il suolo forestale, e prevede il taglio di tutti gli alberi a eccezione di poche piante, giovani ed esili (dette matricine). Ciò che rimane è molto difficile da definire foresta: privata della copertura arborea, l’area diventa spoglia e il terreno è sottoposto a erosione e perde nutrienti. Sia gli alberi che il suolo forestale sono tra i migliori sequestratori di CO2, e in un momento in cui si moltiplicano le iniziative di riforestazione per contrastare il riscaldamento climatico, il Consiglio Regionale dovrebbe pensare innanzitutto a proteggere le foreste già esistenti dal sovrasfruttamento.
Le associazioni ricordano inoltre che il legname prodotto tramite il governo a ceduo è legname di bassa qualità, che in gran parte finisce per diventare cippato per le centrali a biomasse forestali, a cui l’Unione Europea sta considerando di togliere gli incentivi, prendendo finalmente atto dell’insostenibilità di bruciare le nostre foreste per produrre energia. Le biomasse forestali sono inoltre pericolose per la salute dei cittadini, in quanto la combustione di legno produce alte quantità di particolato e altre sostanze inquinanti, mentre è ormai assodato che gli ambienti forestali, lasciati il più possibile alla loro evoluzione naturale,
rappresentano una fonte insostituibile di benessere e di salute.
L’attuale politica forestale della Regione Toscana è quindi insostenibile, climalterante e profondamente dannosa per la biodiversità, e andrebbe rivista nel senso indicato dalla proposta di legge, tutelando dai tagli almeno le riserve naturali, imponendo maggiori controlli e privilegiando la fustaia al posto del ceduo.
La fustaia non solo garantisce un minore impatto sull’ecosistema forestale ma consente anche, qualora si tagli, di produrre legname di qualità per scopi nobili quali la falegnameria e la bioedilizia, che lasciano intrappolato il carbonio assorbito dall’albero e non lo disperdono nell’atmosfera.
Come segnalano le associazioni di settore, questo tipo di legname per usi nobili manca in Italia e viene importato, perché i boschi a ceduo non sono in grado di fornirlo. Se i turni di taglio fossero meno ravvicinati e i boschi non venissero ceduati a intervalli di pochissimi anni, potremmo proteggere la biodiversità, combattere il riscaldamento globale e ridurre drasticamente le importazioni di legname da opera dall’estero. Una politica industriale ed ecologica di lungo periodo che speriamo la Regione Toscana approvi, dimostrando la necessaria lungimiranza.
ASSOCIAZIONI FIRMATARIE
GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane, Movimento per la Terra e la Comunità Umana, WWF Toscana, Italia Nostra Toscana, ISDE – Medici per l’Ambiente, European Consumers, SIRF – Società Italiana di Restauro Forestale, Green Impact, Parents for Future, Atto Primo – Salute Ambiente Cultura, Comitato Val di Farma, Comitato per la salvaguardia della Montagnola Senese, Forum Ambientalista Toscano, Coordinamento Merse
Sugli incendi forestali, come su altri temi che riguardano le foreste, oggi si danno per assunti e scontati alcuni concetti che fino a qualche anno fa non lo erano per nulla. E non mi riferisco all’opinione pubblica in generale, ma proprio al mondo forestale.
Io sono laureato in Biologia, ma ho cominciato ad occuparmi di argomenti forestali quando ero ancora studente universitario e per svolgere delle ricerche bibliografiche frequentavo la biblioteca dell’Istituto di Selvicoltura della mia università. Poi, il mio interesse per quelle discipline aumentò progressivamente fino a farmi decidere che era quello in settore al quale dovevo dedicarmi. Anche perché il mio mentore era Ervedo Giordano, un perfetto professore di selvicoltura scomparso l’anno scorso, la cui cultura generale e apertura mentale nei confronti dei temi scientifici erano veramente rare e nascevano anche dal fatto che aveva davvero viaggiato per mezzo mondo e conosciuto ambienti e persone di ogni tipo1). Eravamo nella seconda metà degli anni Settanta e, a livello europeo, si potevano distinguere nettamente due diversi approcci alla gestione del bosco: quello che per comodità potremmo definire di impostazione tedesca, e che oggi impera nella maggior parte dei Paesi dell’Europa centrale e settentrionale, e quello a prevalente matrice francese.
Nel primo caso, l’impostazione è di tipo economico-produttivistico e interpreta il bosco come una realtà che deve essere dominata, uniformata e quasi geometrizzata per fornire un solo prodotto, quello legnoso, nella maggiore quantità e migliore qualità possibile. A tal fine, l’insieme delle tecniche colturali adottate rendono la selvicoltura nordica qualcosa di veramente molto simile all’agricoltura. In pratica, si taglia il bosco, si ara il terreno e si mettono a dimora nuove piantine forestali tutte uguali e disposte con grande precisione su file parallele, grazie anche alla meccanizzazione spinta di tutte le operazioni. Alla fine del ciclo colturale, il bosco si taglia e si ricomincia daccapo. In effetti, i boschi svedesi o finlandesi, apparentemente molto belli, sono in assoluto tra i più poveri di biodiversità.
Il secondo approccio alla gestione della foresta, che ha visto i francesi tra i massimi teorizzatori, è di stampo decisamente più naturalistico nel senso che cerca, per quanto possibile, di rispettare l’ecologia dei popolamenti forestali e, soprattutto, non prevede l’ossessivo ricorso alla piantagione successiva ai tagli di utilizzazione, ma dà spazio alla rinnovazione naturale del bosco, quella che si genera a partire dai semi liberati dagli alberi stessi.
A questo secondo indirizzo si è sempre ispirata la Scuola Forestale Italiana che, a partire dal primo dopoguerra, aveva già assunto un suo specifico profilo e aveva espresso figure di elevato spessore scientifico a cominciare dal capostipite, quell’Adolfo di Bérenger, tedesco di nascita, francese di famiglia, austriaco di formazione e italiano per cultura e vocazione, che promosse la fondazione del Regio Istituto forestale (inaugurato a Vallombrosa nel 1869 e di cui divenne il primo direttore), segnando l’inizio della selvicoltura in Italia. Ma va subito sottolineato che Di Bérenger non era un semplice forestale: aveva un laurea in filosofia, era poliglotta, era un fine cultore della storia e della letteratura greca e latina che studiava direttamente dai testi in lingua originale, aveva un diploma in Scienze Naturali, era un capace botanico e un ecologo sapiente tanto da intrattenere proficui rapporti culturali – e di amicizia personale – con George Perkins Marsch, considerato da molti come il primo ecologista americano, il quale giunto in Italia come ambasciatore degli Stati Uniti, trascorse i suoi ultimi giorni proprio a Vallombrosa.
La Scuola Forestale Italiana nasce, quindi, in un’effervescente e feconda atmosfera culturale in cui il confronto tra forestali, botanici, naturalisti, ecologi e altri intellettuali era continuo, corretto e costruttivo e i ruoli degli uni erano molto spesso scambiabili con quelli degli altri. E devo dire, in tutta onestà, che quest’aria si respirava ancora negli anni Settanta nonostante qualche tendenza all’arroccamento corporativo dei forestali che, negli anni del Fascismo, si erano in qualche modo “militarizzati”, per così dire. Però il dialogo tra esponenti del mondo forestale e di quello dei naturalisti continuava proficuo perché ambedue le categorie avevano come riferimento concettuale e principio informatore delle loro attività la conservazione delle foreste. La differenza di visione si riduceva, per dirla con il mio amico Spada, nell’ordine delle azioni: Conservare per rinnovare vs Rinnovare per conservare.
È certo che l’obiettivo comune a tutti i forestali di quegli anni, docenti universitari o dipendenti dell’Amministrazione Forestale dello Stato era il medesimo: aumentare le provvigioni dei nostri boschi, estenderne le superfici e aumentarne la complessità. Il modello di riferimento, teorizzato da Lucio Susmel, era la fustaia mista disetanea. Si mirava, per quanto possibile, a ridurre le superfici delle tagliate e, pur nella consapevolezza che il governo a ceduo era una realtà inevitabile per alcuni territori, si promuovevano le conversioni. Egualmente, si studiava ancora il carbone da legna, ma la navigazione seguiva la rotta che portava all’incremento della produzione di legname da opera e non di legna da ardere. E che ciò fosse possibile, lo si dimostrava. Non mi stancherò mai di ricordare, infatti, che Parchi nazionali come quello delle Foreste Casentinesi o del Gargano sono stati istituiti per conservare Foreste restaurate, plasmate e sapientemente gestite dai Forestali dell’allora Azienda di Stato per le Foreste Demaniali.
Lo spirito di quei tempi si ritrova ancora negli Atti del Secondo Convegno Nazionale di Selvicoltura tenutosi a Venezia nel giugno del 1998. L’accento è sempre sul valore dei boschi legato alla loro conservazione che sola può garantire un futuro che vada oltre il prodotto. Ad esempio, nella sua mirabile relazione, Alfonso Alessandrini, allora Direttore Generale delle Foreste e dell’Economia Montana presso il Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, già parla di progetti di restauro dei boschi italiani, da condurre addirittura con gli industriali del legno per aumentare le provvigioni, per ridare dimensione alle foreste. E gli fa eco, nello stesso convegno, Franco Arquati, industriale del legno, che parla di restauro forestale, conversioni all’alto fusto e occupazione giovanile. Per contro, Alessandrini si scaglia contro la pianificazione ossessiva del territorio e degli interventi forestali. Sue parole: “In Italia c’è un fervore, quasi ossessivo di pianificazione, di carte. C’è il rischio di fatti ripetitivi ed invasivi se non offensivi” e continua parlando di “esigenza di ambiente naturale”.
Tale idea della foresta e del ruolo dei forestali non si è persa del tutto, ma non posso non osservare che accanto a questa scuola di pensiero, ovvero ai suoi ultimi epigoni, ne sta crescendo prepotentemente e con gran vigore un’altra che propone una visione affatto differente, una che arriva a dire che i boschi sono troppi e sottraggono terreno alle attività produttive. La svolta, o diversificazione, come vogliamo chiamarla, si è avuta proprio a partire dall’inizio degli anni Duemila e la ragione non sono riuscito a capirla fino in fondo. Forse è collegata con la nascita e il prodigioso sviluppo delle nuove tecnologie digitali che consentono di fare in brevissimo tempo e con grande comodità operazioni che prima richiedevano grande dispendio di energie. La conseguenza è che il lavoro forestale è diventato sempre più un’attività in smart working non impegnando il ricercatore o il professionista in lunghe “sessioni” in natura. La frequentazione del bosco è diventata un complemento non sempre necessario e non sempre gradito.
Gli esiti di questa nuova visione della foresta si ritrovano tutti nella legge n.34 del 2018 “Testo Unico in materia di Foreste e di Filiere Forestali”, detto TUFF, e nella recente Strategia Forestale Nazionale che ad essa si collega. Si tratta di un provvedimento che, per la prima volta rispetto a tutti i precedenti analoghi, ha suscitato l’indignata protesta del mondo degli ecologi, dei naturalisti e dei botanici a partire da ben tre ex presidenti della Società Botanica Italiana, anche perché nessun rappresentante di queste categorie di esperti è stato chiamato a collaborare alla stesura della legge nonostante non si possa dire, né si era mai detto prima, che il bosco sia di competenza esclusiva dei forestali. Ma alla protesta si sono uniti anche non pochi vecchi forestali e docenti, compreso il sottoscritto, per l’impronta produttivistica di stile nordico posta al centro delle attività forestali.
Ma cosa c’è di discutibile in questi testi? A mio avviso molte cose, ad iniziare dalla terminologia utilizzata perché, nel tentativo di cercare nuovi percorsi semantici che evidenziassero il carattere innovativo del prodotto, si è peccato di imprudenza. Infatti, l’insieme delle azioni mirate a conservare e migliorare i boschi italiani – come enunciato nell’art. 1, Principi – nella prima bozza della legge viene definito “Gestione attiva” della foresta. Subito dopo viene spiegato che la “Gestione attiva” non è altro che il complesso dei tagli possibili. Poi, forse anche sull’onda delle proteste, ci si rende conto che l’espressione “Gestione attiva” non è la più conveniente e si scrive che “gestione attiva delle foreste” è espressione equivalente a “gestione sostenibile delle foreste”. Ora, premesso che il vocabolario italiano non agevola tale equivalenza, io ritengo che si sia commesso un errore di fondo. Le modalità di taglio del bosco (la cosiddetta gestione attiva secondo il TUFF) sono uno degli oggetti principali della selvicoltura, scienza empirica che nasce dall’esigenza di guidare gli interventi di prelievo legnoso dal bosco senza degradare il medesimo, anzi garantendone la perpetuazione. La selvicoltura, che raccoglie un plurisecolare patrimonio di esperienze, si pone proprio l’obiettivo di trarre un utile dalla foresta danneggiandola il meno possibile ossia assicurando la conservazione dell’efficienza dei meccanismi che ne regolano gli equilibri vitali. In altri termini, la selvicoltura è di per sé sostenibile e non può essere altrimenti. Chi non pratica una selvicoltura sostenibile, ossia la selvicoltura tout court, non è un forestale, ma un incompetente di madre culturale ignota. D’altra parte, il famigerato aggettivo “sostenibile”, nasce e può trovare applicazione solo in ambiente economico e industriale, lì dove si continua ad evocare il famoso quanto ambiguo “sviluppo sostenibile”. Non per nulla, l’aggettivo “sostenibile” non è stato adottato nel mondo delle scienze d base e di quelle che si riferiscono agli organismi viventi. Non esiste certamente una matematica o una fisica sostenibile, ma nemmeno una biologia sostenibile e nemmeno una medicina e chirurgia sostenibili. Immaginate una “clinica oculistica sostenibile”; a uno che per sbaglio va in una clinica oculistica che non reca la dicitura sostenibile che fanno? Gli cavano un occhio? Cerchiamo quindi di essere più precisi e coerenti altrimenti ci facciamo male da soli. Di recente ho sentito parlare addirittura di corsi di laurea in Gestione Sostenibile delle Foreste. Ma perché? Esistono in qualche università italiana corsi di laurea in Gestione Insostenibile delle Foreste? Non capisco davvero cosa si voglia intendere. La selvicoltura, quella con la S maiuscola, ancorché finalizzata alla produzione legnosa, non può non essere sostenibile e di conseguenza il vero forestale conosce solo la gestione sostenibile della foresta. Punto.
Non posso e non voglio dilungarmi, perché il tempo non lo consente, sui tanti altri aspetti che fanno divergere il vecchio pensiero forestale da quello più giovanile, ma non posso evitare un accenno ai cosiddetti servizi ecosistemici ai quali sia il TUFF che la Strategia Forestale Nazionale fanno ampio riferimento. Negli anni Settanta si parlava di tre funzioni del bosco: produttiva, protettiva e culturale-ricreativa. Adesso queste funzioni sono state addirittura suddivise in sottocategorie e si parla di almeno quattrodici tipologie di servizi ecosistemici. Dopodiché si offrono dei suggerimenti per gestire il bosco in modo che esso possa garantire questi servizi. Ora, sorvolando anche sul fatto che il bosco non è nato per erogare servizi, agli esperti che si sono impegnati nella stesura di questi testi è sfuggito, a mio parere, che l’ecologia e la stessa termodinamica avvisano che l’insieme dei servizi ecosistemici può essere fornito solo da un ecosistema integro. Tanto più è perturbato il bosco, tanto meno può risultare servizievole. Ciò significa che sarebbe opportuno approfondire l’argomento per arrivare a produrre un abaco che metta in relazione lo stato della foresta con gli eventuali ecoservizi che la stessa può erogare perché la generalizzazione può essere fuorviante. Infatti, gli ecoservizi offerti da un ceduo a turno breve sono ben pochi, almeno così credo.
Il problema di fondo, comunque, è che dopo tanti anni di evoluzione positiva delle idee sulla natura degli ecosistemi forestali e del rapporto uomo-bosco, si è tornati ad una visione di tale rapporto che considera l’uomo soggetto esterno e dominante, tanto che tocca sentire nuovamente circolare, anche in ambienti universitari, la fandonia secondo cui “il bosco ha bisogno dell’uomo” perché senza la selvicoltura il bosco muore. E il paradosso è che tutte le indicazioni fornite dal TUFF e dalla Strategia Forestale Nazionale non portano, come volevano i vecchi forestali, verso un incremento della complessità – che forse potrebbe richiedere l’intervento dell’uomo – ma verso una semplificazione sempre maggiore dei soprassuoli. La forma di governo prevalente sta tornando ad essere il ceduo perché i popolamenti invecchiati non vengono convertiti a fustaia, i turni si accorciano, le superfici assoggettate al taglio diventano più ampie e anche la lotta agli incendi boschivi ormai si risolve prima di tutto in nuovi tagli, una delle principali declinazioni della recentissima quanto aberrante selvicoltura “preventiva”!
Questa è, a mio avviso, la più triste e pericolosa conclusione di questa vicenda: per questo tipo di gestione attiva e preventiva del bosco basta un taglialegna, il forestale non serve più. Qualcuno dirà che questo è il futuro di tutte le professioni, compreso l’intero mondo della scienza. È vero, come stiamo già osservando, il lavoro del ricercatore non servirà più perché verrà sostituito dall’intelligenza artificiale. Nel frattempo, però, mi piacerebbe si usasse ancora l’intelligenza naturale.
Molto devo anche al prof. Raffaello Giannini, all’epoca il più giovane Ordinario di Selvicoltura d’Italia, che, per far capire lo spirito del tempo, era anche il Delegato regionale del WWF per la Puglia.
La direttiva dei Carabinieri Forestali e come il cittadino può farla rispettare
Recentemente è stato attaccato molto duramente il comando dei Carabinieri forestali per una direttiva operativa, firmata dal Comandante in persona, in cui si danno disposizioni alle stazioni forestali di perseguire come taglio illegale di fustaia le utilizzazioni in cedui che hanno superato di una volta e mezzo il turno minimo fissato dalle leggi regionali (diversi da una regione all’altra, ma mediamente intorno ai 20 anni per i cedui di querce, 25 per quelli di faggio e 15 per quelli di castagno).
Intendiamo esprimere piena solidarietà ai Carabinieri forestali contro questa dura presa di posizione del settore delle ditte forestali e appoggia le linee di politica forestale a favore del taglio raso espresse da molte regioni e dallo stesso Ministero dell’Agricoltura.
La nostra Associazione saluta invece con molta soddisfazione questa chiara e netta presa di posizione dei Carabinieri Forestali a tutela delle funzioni ecologiche dei boschi, che pone finalmente argine al dilagare produttivistico delle politiche forestali regionali, in tutto inclini a favorire gli operatori economici della filiera delle biomasse.
Il vertice dei Carabinieri forestali è stato accusato di scarsa collaborazione istituzionale, per avere imposto una lettura unilaterale della legge forestale senza consultare le regioni. Noi crediamo Invece che i Carabinieri, giustamente, abbiano inteso rispondere e fare riferimento soltanto alla legge, applicando una lettura del tutto in linea anche con le recenti ed importantissime modifiche costituzionali a favore dell’ambiente. Pensiamo piuttosto che la scarsa collaborazione istituzionale venga proprio dalle regioni, che continuano ad approvare leggi eversive del nostro ordinamento costituzionale. Non da ultima regione Toscana, che ha approvato una discutibilissima modifica della legge forestale, in contrasto con l’articolo 9 della Costituzione, con il codice della tutela del paesaggio e con lo stesso testo unico forestale, già impugnata dal governo di fronte alla Corte Costituzionale.
Auspichiamo adesso che i reparti dei Carabinieri forestali, in tutte le loro articolazioni territoriali, applichino fedelmente quanto disposto dal loro vertice.
Invitiamo inoltre tutti i cittadini a collaborare con gli organi di controllo, segnalando i tagli di bosco ceduo in cui risulta probabile l’avanzata età degli alberi. Per questo motivo intendiamo dare alcuni consigli pratici per rendere la segnalazione di ogni cittadino uno strumento efficace in mano ai Carabinieri forestali.
Per verificare l’età di un bosco è necessario contare gli anelli delle ceppaie recise sui Polloni del ceduo, facendo attenzione ad escludere le matricine tagliate. Quest’ultime si riconoscono bene perché la loro ceppaia ha la chiara forma di un cono molto schiacciato, mentre la ceppaia dei Polloni evidenzia maggiori irregolarità. Osservando una ceppaia è facile riconoscere le sezioni di taglio di ogni singolo Pollone e, con un po’ di attenzione, distinguere gli anelli di accrescimento. Per avere un dato più attendibile, è buona regola contare gli anelli di almeno cinque o sei ceppaie sparse sull’aria di taglio. Per facilitare l’individuazione degli anelli è meglio portarsi dietro un pezzo di carta vetrata non troppo fine e, eventualmente, spargere sulla sezione di taglio un po’ di terriccio raccolto intorno, o versare sopra dell’acqua in modo da evidenziare meglio la discontinuità degli anelli di legno.
Il secondo passo da fare è quello segnare la ceppaia con un segno evidente ed indelebile, ad esempio con una bomboletta di vernice spray spruzzata fuori dalla sezione di taglio. Il terzo passo è quello di scattare una foto più nitida possibile alla sezione di taglio, in modo che gli anelli possano essere contati anche dalla foto. Prima di scattare la foto e buona regola poggiare sulla sezione di taglio del pollone un oggetto che permetta di avere un’idea delle dimensioni dell’albero tagliato punto la miglior cosa sarebbe usare un righello graduato. Se si ha un pennarello indelebile, è buona regola numerare ogni ceppaia scrivendo la cifra In modo tale che non disturbi la conta degli Anelli. A questo punto è possibile scattare la foto, più nitida possibile, avendo cura di inquadrare tutti gli elementi elencati: il righello, il numero, e anche il segno di vernice, che sarà molto importante in seguito per ritrovare la ceppaia dentro all’area di taglio e riconoscerla. Sarebbe ottimale associare ad ogni foto un punto di coordinate note, preso appoggiando un semplice smartphone sulla ceppaia e utilizzando una delle tante applicazioni GPS che si scaricano dal web (ad esempio “stato GPS”).
Una cosa molto importante da non dimenticarsi è quella di prendere la posizione dell’area che si sta esaminando. Per far questo è sufficiente aprire, ad esempio, l’applicazione di Google Maps, aspettare che il GPS ci indichi la posizione sulla mappa (generalmente un punto di colore blu), tenere premuto per 3 secondi il dito su tale punto, creando così un segnaposto, toccando in basso il pulsante di condivisione e scegliendo l’opzione di “copia negli appunti”. Poi si apre una app per appunti, ad esempio “blocco note”, e si incolla il link di Google Maps che ci porta a quella posizione.
Adesso la cosa migliore è organizzare tutto su un file word, scrivendo una breve relazione su quello che si è visto, e incollando le foto prese, magari corredate da una breve didascalia dove si indicano gli anelli contati e le coordinate della ceppaia. Poi si incolla il link della posizione del cantiere forestale ricavata da Google Maps. A questo punto la segnalazione può anche essere mandata per mail all’indirizzo della più vicina struttura dei Carabinieri forestali, avendo cura di indicare tutte le proprie generalità: nome cognome data e luogo di nascita, indirizzo di residenza e numero di telefono dove è possibile essere contattati per maggiori chiarimenti. Bisogna poi allegare all’email anche una copia di un documento valido.
Dobbiamo imparare a collaborare bene ed efficacemente con le istituzioni, senza limitare la nostra azione di cittadinanza attiva soltanto alla pubblicazione di post sui social, che sono comunque importanti per segnalare le criticità incontrate durante la nostra attività quotidiana.
Il governo a ceduo ha diverse criticità: 1. dopo il taglio, la perdita di suolo e nutrienti per erosione in special modo quando localizzato in zone di pendenza, 2. la perdita di nutrienti con l’asportazione della massa legnosa tagliata. Tutto questo avviene ciclicamente in modo molto ravvicinato ogni 15-20 anni (turni dei cedui) e è particolarmente impattante nei cedui matricinati, di fatto dei tagli rasi con rilascio di qualche pianta, che lascia il terreno scoperto all’azione battente delle piogge. Piogge sempre più violente (nubifragi) a causa dei cambiamenti climatici in atto, con evidente aumento dei rischi erosivi se non addirittura l’innesco di movimenti di massa (frane). Non essendo praticato nessun intervento di reintegro dei nutrienti, neanche nelle situazioni pedoclimatiche più fragili, la perdita di fertilità nel tempo è una costante. Una tale situazione è in contraddizione con quanto ora si auspica in merito all’impiego delle foreste come accumulatori di CO2 atmosferica e conservazione della biodiversità.
Nella letteratura nazionale pochi, per non dire nessuno (probabile che mi siano sfuggiti), hanno trattato l’argomento delle asportazioni di nutrienti nel corso delle utilizzazioni, in genere e ancor meno in particolare per il ceduo. L’articolo di André e Ponette (2003), in allegato, tratta l’argomento in questione. In mancanza di una indagine simile su popolamenti forestali nazionali, i risultati del lavoro dei due autori può servire come orientamento generale degli effetti del fenomeno.
Nella tabella che segue sono riassunti alcuni risultati ottenuti da André e Ponette (2003). Si tratta di un ceduo sotto fustaia (fustaia di Quercus petreae, ceduo di Carpinus betulus) dove è stata stimata la concentrazione di alcuni nutrienti nella biomassa epigea, tenendo distinte le varie parti delle piante. Sono riportate le concentrazioni di azoto (N) e fosforo (P). Si rimanda alla pubblicazione per gli approfondimenti.
Le piante di rovere compongono il piano dominante a fustaia, hanno notevoli dimensioni e la loro età è stimata in 100-120 anni. Le 154,4 tonnellate di sostanza secca (t) epigea delle piante di rovere ad ettaro contengono kg 379,8 e kg 28,7 rispettivamente di N e P, le quantità che verrebbero asportate se tutta la massa fosse rimossa. Se invece fossero asportati solo i tronchi scortecciati verrebbe asportato solo il 26% di N (kg 99,2) e il 15% di P (kg 4,4) corrispondenti al 50,7 % (t 78,2) della massa epigea, quella di maggior valore mercantile. Questo è dovuto al fatto che il durame ha una concentrazione bassissima di N e P. In ognuna delle 60 t di durame ci sono mediamente kg 0,97 di N e 0,01 di P. Nell’alburno mediamente sono maggiori (kg 2,26 N e kg 0,22 P) e ancora di più nella corteccia (kg 5,68 N e kg 0,48 P). Sappiamo che maggiori sono i diametri maggiore sarà la percentuale di durame in quanto legata all’età della pianta. Inoltre fino a certi diametri piante anche di notevoli dimensioni possono essere scortecciate direttamente al momento del taglio con mezzi meccanici (bracci idraulici muniti di cesoie che tagliano, sramano, scortecciano e depezzano) oppure manualmente, lasciando sul letto di caduta le parti eliminate asportando solo il durame e l’alburno.
È improbabile che la legna da ardere venga scortecciata e impossibile il legno cippato. Ma è proprio la massa legnosa di minor diametro quella che ha la maggior concentrazione di N e P. I rami di rovere su una biomassa di t 69,0 che insieme alle t 7,1 della corteccia corrispondono a poco meno del 50% della totale epigea, contengono kg 280,3 di N e kg 24,3 di P, quasi 3 volte in più di N e 6 volte di P dei tronchi del fusto scortecciato. Se riportiamo il dato ad 1 t, vediamo che in 1 t di rami più corteccia vi sono kg 3,7 di N e kg 0,31 di P. Ipoteticamente, visto che stiamo parlando di materiale legnoso ottenibile con turni molto lunghi (le piante hanno mediamente 100-120 anni), possiamo ipotizzare che nel corso di un secolo l’azotofissazione dei batteri possa compensare la perdita di N (tutto da dimostrare). A questa possiamo supporre che vi possa essere anche un apporto con le piogge e, in particolari situazioni edafiche e di giacitura, da falda superficiale (2-3 metri), da esondazioni, da polveri del deserto. Per il P è molto più difficile in quanto non esiste la fissazione batterica né pioggia, possono sussistere le altre 3 possibilità ma solo in situazioni ancora più ipotetiche che per l’N.
Se consideriamo il caso del ceduo, la situazione si fa ancora più difficile. La biomassa epigea di carpino corrisponde a circa t 37 e contiene kg 118,3 di N e circa kg 10 di P, dovuto alle ridotte dimensioni del materiale condizionato dalla giovane età. Se riportiamo il dato a t, in 1 t abbiamo mediamente kg 3,20 di N e kg 0,27 di P, il tutto per ottenere un assortimento di scarso valore mercantile. L’asportazione in questo caso (in Belgio) avviene a cicli di 25-30 anni. La quantità asportata, in 100-120 anni come nel caso della rovere, va moltiplicata almeno per quattro. I tempi di reintegro dei nutrienti per via “naturale” si riducono e la quantità asportata aumenta. Nel caso di un ceduo inoltre, ma anche in quello di una fustaia sottoposta a taglio raso, se posta in pendice, (come capita in Italia frequentemente) dobbiamo considerare la perdita di suolo, di N e P per erosione che avverrà fino a quando non si sarà ricostituito un manto arboreo. L’erosione nel caso di un ceduo è maggiore in quanto avviene a cadenze più ravvicinate di una fustaia specialmente nei casi in cui i turni sono più brevi (15-20 anni). Inoltre in caso di cedui su pendice l’ipotesi che si possano avere apporti di N e P per esondazione è nulla, per falda superficiale molto improbabile, specialmente in certi contesti geologici (vedi terreni derivati da calcare fessurato).
In particolare per il P l’adozione di sistemi selvicolturali che riducano al minimo la sua asportazione sarebbe auspicabile, visto che tradizionalmente non sono previste concimazioni se non qualche volta al momento della piantagione. In questa ottica conservativa appare manifesto che il ceduo, in particolare quello matricinato, è una pratica che dovrebbe essere superata e sostituita dalla fustaia, come dovrebbe essere superato il taglio raso. Inoltre, sempre nella stessa ottica, l’asportazione dovrebbe essere solo di piante in cui sia elevata la presenza di durame e che siano scortecciabili sul letto di caduta. È evidente che queste indicazioni di massima dovrebbero essere contestualizzate in base alle condizioni edafiche e di giacitura ma dovrebbero essere la linea generale.
Abbiamo bisogno di legno (legname da opera) per manufatti duraturi che conservino la CO2 nel tempo, non per bruciarlo. Se proprio non si può fare a meno di legno da bruciare, almeno usiamo i residui a cascata di quello di scarto prodotto della lavorazione di quello da opera. Per produrre energia termica ed ancora di più elettrica abbiamo molte alternative alla biomassa.
Commenti recenti